Umberto Galimberti: Quando si pone fine a una vita

25 Marzo 2005
"Eutanasia" è una parola greca che significa "buona morte", che è poi la morte che compete all´uomo che ha condotto la sua vita senza prevaricazioni e senza eccessi, attenendosi alla giusta misura (kata metron). Oggi la parola significa "morte anticipata" rispetto alle residue risorse dell´organismo, grazie alle possibilità rese disponibili dalla tecnica. E siccome la tecnica è in continuo avanzamento, sempre più difficile sarà distinguere il dovere di cura dall´accanimento terapeutico. La tecnica infatti ha creato un tempo intermedio tra la vita e la morte, dove una vita organica si protrae o in assenza di una vita cognitiva o in conflitto con la capacità di sopportazione del paziente, che in questo caso chiede di essere aiutato a morire.
Come scriveva Umberto Veronesi su ‟Repubblica” del 22 marzo di eutanasia si può parlare solo in questo secondo caso in cui: "Si asseconda la libera volontà espressa da un malato di porre fine alla sua esistenza quando si verificano alcune condizioni che la rendono insopportabile" come è il caso del protagonista del film Le invasioni barbariche. Non si deve invece parlare di eutanasia a proposito della dolorosa vicenda di Terri Schiavo, che divide le opinioni di quanti seguono con partecipazione il caso, o qui da noi dell´analoga vicenda di Eluana Englaro la cui sopravvivenza è garantita solo dall´alimentazione, dall´aerazione e dall´idratazione somministrate dalle macchine.
In questi casi la divisione dei pareri non dovrebbe assumere toni accesi che giungono a qualificare difensori della vita gli uni e cultori della morte gli altri, perché a promuovere gli opposti pareri è lo stesso sentimento di pietà per il paziente, è lo stesso amore che fa ritenere meglio una soluzione all´altra. La contrapposizione, spesso violenta che non vuol comprendere le ragioni dell´altro, attesta più una difesa della propria appartenenza fideistica o ideologica, che un vero interesse per la condizione di chi si trova in quello stato intermedio tra la vita e la morte, dove la decisione è estremamente difficile, ma non impossibile se appena rivisitiamo la nozione di morte connettendola strettamente alla nozione di vita, che, come ognuno percepisce, è una nozione decisamente più alta, più ricca, più mia, di quanto non sia la nozione di organismo su cui la scienza medica esercita la sua giurisdizione.
Il problema dell´eutanasia è tutto qui. La morte mi riguarda o riguarda solo il mio organismo? Questo pensiero che accompagna la vita di noi tutti, che limita la nostra progettualità, che ci fa compiere certe scelte a una certa età e non a un´età più avanzata, questo pensiero della fine dei nostri giorni che coinvolge aspettative e speranze, progetti e rimpianti, affetti e stili di vita, è una faccenda da affidare alle sorti della materia di cui siamo fatti, o è una faccenda su cui anche noi possiamo intervenire, proprio perché coinvolge quel che siamo e non tanto quello di cui siamo fatti?
Quando ci dovessimo emancipare da questo grossolano materialismo che, cadenzando la vita sulle sorti della materia, ci espropria di quel che la vita ha significato per noi, dello stile che gli abbiamo dato, dell´impronta che gli abbiamo conferito, per consegnarci irrimediabilmente a quell´evento non nostro che è la morte organica, anche la decisione se prolungare o meno la vita del nostro organismo risulterebbe più facile.
Del resto tanta incertezza e tante discussioni intorno alla morte assistita, chiesta, invocata e talvolta accordata, quando il paziente è vivo solo per le leggi biologiche dell´organismo, in quella notte buia della coscienza che non attende più nessuna alba, dipende dal fatto che è incerto il nostro concetto di "vita", che oscilla paurosamente tra la vita anonima dell´organismo e quella personalizzata dell´individuo che, nelle residue possibilità biologiche del suo organismo, non riconosce alcuna immagine di sé.
Sulla prima posizione è attestata la chiesa cattolica e la convinzione di molti credenti che, partendo dal concetto che la vita è un dono di Dio, ne chiedono il rispetto fino all´ultimo respiro. Nella mia profonda incertezza e incapacità a prendere posizione su questo tema, devo dire che l´argomento della chiesa cattolica è troppo generico fino ai limiti dell´insignificanza, quando non addirittura decisamente materialistico.
Che cos´è, infatti, la vita? La semplice animazione della materia, come pare di poter dire per certe esistenze tenute appunto "in vita" dalla strumentazione tecnologica? O il rispetto dell´individuo, della sua coscienza, della sua deliberazione che proprio il cristianesimo, e non altri, ha eretto a valore indiscusso, trasmettendo questo riconoscimento alla cultura laica che lo ha assunto a principio della sua organizzazione sociale?
Il problema dell´eutanasia non mette in gioco il valore della "vita" che prolifera ovunque, ma il valore dell´"individuo" che, in certe condizioni può non ritenersi più degno di sé, e può quindi sentirsi in diritto di decidere di por fine a un´esistenza in cui altro non riconosce che un puro processo biologico, il quale, grazie all´assistenza tecnica, procede nella sua anonima irreversibilità.
Con queste considerazioni non voglio spezzare lance a favore dell´eutanasia; semplicemente vorrei che la morte perdesse quel suo tratto di estraneità che inevitabilmente possiede quando è affidata alle sorti biologiche dell´organismo, e diventasse qualcosa di familiare con la vita, qualcosa che non chiude come un evento estraneo amori e amicizie, ma si fa accompagnare dagli amori e dalle amicizie per cui e con cui siamo vissuti. Questa è la morte "umana" che va assolutamente distinta dalla morte "biologica" che al limite non ci riguarda.
Ma proprio qui, quando il problema sembra, se non risolto, almeno meglio impostato, deve raccogliersi la nostra attenzione e forse spostarsi dal problema dell´eutanasia al problema dei margini d´esistenza che la nostra cultura contempla come margini "dignitosi" e considerare se quei margini nella nostra società non si sono troppo ristretti come effetto della rimozione metodica del dolore.
Se questo, come io credo è un vero problema, allora anche le parole della chiesa cattolica possono essere riascoltate. Non come parole a difesa di un troppo generico concetto di "vita", ma come parole che chiedono di non sopprimere con troppa leggerezza l´esperienza del dolore, perché su questa strada disimpariamo a trattarlo, e quando si presenta non disponiamo di altro linguaggio che la radicalità di un gesto. E questo anche quando non si è in coma irreversibile, ma solamente sotto l´incubo di un orizzonte che, per la nostra forza di sopportazione, s´è fatto troppo buio.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …