Vittorio Zucconi: Dentro la città del silenzio dove la morte diventa pace

04 Aprile 2005
Al cancello che separa la città dell´eterno dalla città del tempo, le guardie svizzere in uniforme viola quaresimale vegliavano sul silenzio che ha avvolto come una sindone invisibile la fine di un Papa. Quando attraverso con qualche batticuore la cancellata accanto alla chiesina di Sant´Anna dei Palafrenieri dove un cardinale africano stava celebrando la promessa dell´eternità in una Messa mentre il Papa moriva, i pochi metri che dividono il pieno fuori dal vuoto dentro sembrano l´attraversamento di una palude larga duemila anni e lunga come il tragitto che Giovanni Paolo ha finito. Ho avuto il privilegio di attraversare il confine dell´infinito e di trascorrere qualche ora laddove un miliardo di cattolici avrebbero voluto essere, dentro la città del silenzio. Sotto la finestra della stanza da letto di Giovanni Paolo II ancora aperte per poche ore, fino alle nove e trenta, nelle vie che la doppia attesa, di un grande lutto e poi di un futuro gaudium magnum, ha svuotato e zittito come un borgo medievale spopolato da una fulminea pestilenza.
Non c´è bisogno di fede eroica né di lacrime televisive, per avvertire, nel cammino lungo la via del Pellegrino, accanto ai magazzini chiusi dell´Annona vaticana, verso i locali della falegnameria ancora aperti dove lavora solitario un unico carpentiere preoccupato delle sue tavole e non del simbolismo, e poi nella salita verso i giardini vaticani, l´ingresso in un´altra dimensione della storia umana, che con la nostra s´interseca ma non si confonde. Nei giardini interni, vuoti di visitatori, dove vedo soltanto tre monaci svolazzare via in fretta con le sottane al vento come se temessero di compiere un sacrilegio essendo così sfacciatamente all´aperto, non ci sono turisti del lutto, curiosi, prefiche, telecamere, anchormen compunti ed esibizionisti. Ma soprattutto, fin dal sorriso gentile della guardia svizzera al rapido cenno del capo dei frati che corrono via sui loro piedi nudi nei sandali, non c´è nulla di quella cappa lugubre, funerea, plumbea con la quale la città del rumore stava assediando da giorni la città del silenzio. Questa non è un cimitero o la sala visitatori di un´unità coronarica, dove amici e parenti si affollano stringendosi le mani e soffiando nei fazzoletti. La quiete assoluta che circonda quel terzo piano e quelle due finestre d´angolo ancora aperte quando le ho osservate e ormai chiuse nel segnale della morte, ha qualcosa di una inimmaginabile serenità e di una consolante malinconia.
La parola che continua a riaffiorare dalle emozioni che provo mentre passeggio in solitudine per le strade di un borgo che si preparava a morire con il suo re e a rinascere con il suo successore è proprio questa, serenità.
Un borgo in pace. Ho assistito ad altre morti illustri, in altre città proibite dei poteri temporali, come i sinistri funerali del Cremlino, celebrati da marce e sepolture che volevano nascondere nella torva solennità del cerimoniale la paura di morire, l´angoscia del futuro che i superstiti esorcizzavano con quegli orpelli e lacrime da coccodrilli.
Ma oltre le mura e i cancelli del Vaticano c´è il rimpianto di chi va, ma non la paura del futuro, garantito dalla promessa fatta a Pietro, per chi ha fede, e dalla solidità di questa mura e di queste tombe di secoli e millenni, che sono per i non credenti già un´accettabile approssimazione d´eternità.
Il cardinale africano celebra la Messa in una chiesa che fu disegnata dal Vignola nel 1572, mezzo millennio fa. Il Collegio Teutonico, accanto all´arco delle Campane, fu fondato nel 799, dodici secoli or sono. La più umile fontanina, in via del Pellegrino, alla quale non posso fare a meno di bere, ha dissetato passanti per sette secoli.
E occorre frenare l´immaginazione quando si sentono gli echi dei propri passi rimbalzare su muri e scricchiolare sulla ghiaia dei giardini che ascoltò i piedi di Giovanni XXIII, di Paolo VI, di Pio X, e per pochi giorni del piccolo papa passato via lieve, senza lasciare quasi impronte, Albino Luciani.
La nostra comune maledizione umana del tempo diventa più sopportabile, dove il tempo si calcola in secoli.
Mi sfiora passando a gran velocità una grossa Bmw argentea con la targa Scv, Stato Città del Vaticano, guidata da una suora robusta e un po´ curva, per non urtare con il velo contro il soffitto. Ha l´aria di chi ha grande fretta, forse sa qualcosa che ancora noi non sappiamo e lo sguardo corre subito alla prima finestra del terzo piano, quella dietro l´angolo del Palazzo Apostolico dalla quale questo Papa non si affaccerà mai più. La corsa della macchinona tedesca con la suora col velo bianco smosso dal finestrino aperto fa sorridere e non si prova nessun pudore a sorridere, perché da un edificio esce di schianto una frotta di bambini e bambine che si rincorrono e gridano con voci bianche tanto alte che se la finestra fosse aperta, sicuramente quelle grida arriverebbero alla stanza che ci sovrasta e domina il borgo da ogni angolazione. Sono bambini venuti infatti dalla città di fuori, a fare ‟er catechismo” come mi dice uno di loro che ha sul volto la beatitudine di chi ha finito la lezione e guarda alla domenica imminente, sorvegliati da un domenicano filippino che sorride e li osserva giustamente senza intervenire, spintonarsi, giocare, vivere, davanti alla porte di un Papa che muore. E il loro modo sincero per celebrare ciò che questo corpo di pietra costruito attorno a un cuore che batteva sempre più flebile fino a fermarsi deve rappresentare, il trionfo della vita sulla morte.
Da lontano mi osserva diffidente e mi segue una guardia del Corpo di sicurezza Vaticano, Csv come dicono le insegne sulla sua normale uniforme da agente di polizia, che non capisce bene che cosa faccia uno sconosciuto senza saio o clergy ai piedi del palazzo del Papa. Ottengo asilo dai colleghi dell´Osservatore Romano, che hanno vissuto dal di dentro il loro piccolo calvario giornalistico, seguendo come noi tutti, ma con ben altre responsabilità, il lento spegnersi del cuore umano dentro il corpo di pietra.
Le scalinate verso le stanze di Raffaello, strusciate da milioni di piedi, sono anch´esse vuote, come sono gli accessi alla Cappella Sistina. Nessuno lavora nel palazzo dei restauri archeologici e degli arazzi, in fondo alla strada della porta di Sant´Anna, dove religiosi, suore, civili, lavorano di solito senza sosta per conservare le cose fragili che rappresentano la continuità assai meglio degli esseri umani e insieme la loro transitorietà, come quella Trasfigurazione che Raffaello cominciò, ma non riuscì a finire, nel 1517, perché morì e che vorrei vedere, da solo, dietro i finestroni che affiancano le finestre degli appartamenti papali, perché incompiuta, come l´opera di ogni Pontefice, in fondo di ogni uomo, e completata da altri. Ma la tolleranza della guardia non è infinita. Mi ferma e mi accompagna verso i cancelli dai quali sono entrato.
Lascio la casa dove un Papa stava morendo con le urla felici dei piccoli allievi del catechismo negli orecchi, che sono il richiamo alla verità essenziale del borgo vaticano, che è la consolazione della permanenza delle cose visibili prima ancora di quelle impalpabili, con uno strano e inspiegabile senso di tranquillità e la dolcezza di un ricordo. C´ero anche io, là fuori tra il popolo della città del rumore, la sera del 16 ottobre 1978, quando il cardinale Felici annunziò quel gaudium magnum che portò il nome del reverendissimo cardinale di Santa Romana Ecclesia, Carolum Woityla, declinato in quel latino che in tanti rimpiangiamo, e poi quando lui stesso ci chiese con un coraggioso strafalcione in una lingua non sua, di ‟correggerlo” se avesse sbagliato. Vidi poi la sua cella a Cracovia, la grande stufa in maiolica, un paio di occhiali da lettura dimenticati accanto al letto nella fretta e il libro pericoloso del gesuita Teillhard de Chardin che stava leggendo quando la morte di Luciani lo portò di corsa a Roma, fino a quella stanza al terzo piano dove ora siamo venuti a dirgli addio nel silenzio, dopo avergli dato 27 anni or sono il benvenuto. Le guardie chiudono le cancellate alle mie spalle, vedo sagome spuntate dal nulla agitarsi improvvisamente per i vicoli. La città del silenzio si anima nel momento della morte, mentre finalmente le città del rumore finalmente zittisce e a Roma si sente il primo suono delle campane.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …