Vittorio Zucconi: Quel corpo rimpicciolito di un gigante

04 Aprile 2005
Sta come il Cristo deposto del Mantegna, messo di piedi, davanti a noi che gli sfiliamo tanto vicini che potremmo toccargli la suola delle scarpe grosse da operaio, la mitra bianca un po´ storta, puntata più verso il cero della Resurrezione che verso la croce della sofferenza, i paramenti gonfi su un corpo che non c´è più. Questo guscio umano struggente, compresso nella prospettiva della deposizione e nel rapporto tra i grandi paramenti e il viso rimpicciolito e indurito, è tutto ciò che resta dell´uomo dolce e affettuoso che con uno sguardo fermò l´Armata Rossa e commosse i giovani.
Il Wojtyla che vedo composto nella sua ultima giornata dentro gli appartamenti vaticani, è l´ultima offesa della morte che ha inasprito un uomo dolce e allontanato un Papa che viveva per stare vicino. La mitra sembra troppo grande, per il suo viso. Il pastorale sotto il braccio non gli appartiene e le mani che stringono il rosario non sono più quelle che si agitavano al ritmo della musica e dei canti popolari. Soltanto vedendo da vicino la salma di Papa Giovanni Paolo II si capisce che davvero Papa Giovanni Paolo non c´è più. Ma anche quell´uomo disabitato ha voluto mandare un ultimo messaggio e un´ultima sfida, in quelle scarpe proletarie che ha sicuramente chiesto lui di calzare, invece delle pantofoline curiali, per raccontare in un´immagine fulminea, da Cristo con la scarpe da contadino, la verità di un missionario camminatore.
Proibito fermarsi a pregare per lui, inginocchiarsi sul marmo, perché la fila di noi ammessi a dire privatamente addio prima dell´esposizione al pubblico oggi nella basilica, preme, con la fermezza implacabile del lutto.
Soltanto le tre suore polacche alla sua sinistra, quelle che immagino curve poche ore fa a infilargli e allacciargli quelle scarpe possono restare, sentinelle immobili, in ginocchio per sei ore, impietrite a contemplare in quella salma, loro stesse. Persino i cardinali e i monsignori, per una volta subordinati alle suore, devono darsi il cambio e frusciare via in fretta nelle loro porpore. Non ci sono i ferali odori della morte, nella sala di Clemente VIII dove è deposto, non aleggia nessun deodorante artificiale né profumi dolciastri di fiori, perché fiori non ci sono, neppure un giglio o un gladiolo, solo due piante verdi in vaso. Nulla deve distrarre chi è venuto a salutare un grande Pontefice divenuto un vecchino fragile, il suo viso largo e aperto di montanaro stretto e consumato da troppa sofferenza, che racconta di quei 15 chili di peso perduti nell´ultimo mese di calvario. Dalle tre finestrone aperte sul cortile di San Damaso, entra qualche soffio di ponentino da una Roma splendente, portando i rumori soffici delle grosse auto ufficiali.
Nessuno piange. Non sento un solo singhiozzo. L´uomo finalmente deposto dalla sua croce non lo avrebbe voluto.
Questo era il primo pomeriggio del mondo senza un Papa che sembrava indistruttibile e ora sta davanti a me indifeso e intoccabile, la testa un poco reclinata sulla destra dove la penosa curvatura del collo l´aveva ormai inchiodata per sempre, spezzando l´asse fin troppo perfetta dei paramenti rossi e bianchi e del bastone pastorale. Tornare a vederlo senza più anima, anche per pochi minuti, è certamente un omaggio alla salma e alla memoria, come si dice nella retorica ufficiale e come ci ripetiamo salendo le scale. Ma la gente che scala i 119 gradini di marmo del Palazzo Apostolico, la casa del Papa, verso il secondo piano dove abita colui che non c´è più, viene in realtà a confortare se stessa, a convincersi che un tempo nel quale tanti di loro sono nati, con quelle facce sbarbate di seminaristi indiani, pretini giovani, suore filippine che sembrano scolarette, è davvero finito. Se tutti i funerali sono fatti per i vivi, come tanto bene sa Santa Romana Chiesa che consola con i suoi riti anche riesumando la immortalità del latino, le esequie di questo Pontefice sono anche l´addio alla giovinezza di una generazione.
Ci arrampichiamo lentamente, dalla Porta di Bronzo, quella che chiude l´arco destro della ellissi di Bernini e sigilla l´ingresso ai Palazzi Apostolici, illuminati dalla luce morbida dei mosaici a vetrata che Leone XIII fece comporre per onorare San Gregorio Magno, sorvegliati da soffitti a cassettoni ornati da rosette di pietra. Da quando il Papa è stato deposto nella sala al secondo piano, detta Clementina, e sono stati fatti salire i cameramen che avrebbero trasmesso al mondo, per la prima volta nella storia, le immagini dalla camera ardente di un pontefice per testimoniare oltre la vita la sua certezza nell´apostolato di massa, davanti alle tre guardie svizzere si ammucchiano persone che implorano, mentono, scongiurano, per ottenere il permesso di salire. L´androne, alle loro spalle, sembra deserto, perché le guardie sono inflessibili e soltanto chi lavora nella città del Vaticano e può esibire il tesserino giallo oro, o ha un´autorizzazione speciale, varca la soglia, ma il vuoto inganna. Dal primo all´ultimo dei 119 gradini, due file parallele di umanità davvero globale aspettano per ore di muoversi da un gradino all´altro. Ogni passo un´Ave Maria, due rosari abbondanti, che una voce ha lanciato spontaneamente, in italiano, e nessuno può esimersi dal recitare. Soltanto all´ultima stazione, quando la Sala Clementina è già in vista, gli altoparlanti americani, incongrui in quel barocco, mandano una voce incorporea e ufficiale che legge le preghiere dei defunti.
Al grande Papa dal piccolo volto sofferente ci si deve avvicinare in fila singola, come un cerimoniere ci avverte.
La disciplina è assoluta, niente furbate. Per l´insistenza di due salesiani e di un monsignore, riusciamo a convincere una signora che da ore regge in braccio un bambino con lo sguardo spaventato a tagliare la fila, come possono fare soltanto i cardinali e qualche superstite della ‟nobiltà nera”, volti esangui in frac un po´ lisi, ectoplasmi di un mondo finito più di quello di Wojtyla. Il Pontefice è posato in basso, quasi sul pavimento, non più sui mostruosi catafalchi aboliti dal severo Paolo VI e quando finalmente sbuchi dalla fila, le sue scarpe ti appaiono all´improvviso.
Le vedi con un sussulto, queste ‟scarpe di Pietro”, che dietro le punte lasciano intravedere, lontano, il suo volto cereo, al quale neppure la tenerezza laboriosa delle suore polacche e degli imbalsamatori ha potuto - o ha voluto - restituire colore. L´angolo delle telecamere, che hanno ripreso la salma dai lati, dunque non dall´angolo al quale il corpo è esposto a noi, inganna. Nessuna commozione di telecronista, nessuna immagine elettronica può trasmettere la nuda e squassante emozione della sala. Nel rigurgito dei dolori privati che ciascuno di noi porta dentro, i resti di Wojtyla non fanno paura, non suscitano angosce. Fanno soltanto un´estrema tenerezza.
L´intimità di quella sala del 1595, piccola nelle proporzioni monumentali della Città Santa, toglie ogni enfasi scenografica all´addio, come quelle suole spesse che ti accolgono, nella deposizione del primo ‟Papa con le scarpe”. Non so chi abbia voluto questa sobrietà, se Lui stesso o l´arcivescovo Stanislao, il compagno polacco di una vita, che vedo muoversi con il piglio di un sagrestano esperto in una qualsiasi parrocchia, disponendo e ordinando, addirittura accennando un sorriso, l´unico che possa permetterselo. Le tre suore in prima fila, le tre Marie di questa deposizione, non muovono più un dito dopo che hanno stretto la mano alla signora Franca Ciampi e a Berlusconi, naturalmente davanti alle telecamere, ferme sotto quei copricapi alti a tamburello che già, nella Polonia cattolicissima, richiamano gli abiti delle sorelle ortodosse oltre la frontiera russa. La loro immobilità marmorea è il perfetto corrispettivo della immobilità del loro Papa, come se le tre pie donne volessero riprodurne la stasi definitiva nella propria, o testimoniare la fine della loro missione. Viene il sospetto che forse avrebbero voluto morire con il loro «Lolek».
Siamo soltanto poche decine di persone, qui per l´ultimo giorno di Wojtyla nelle stanze dove già è un estraneo. La stanza di Clemente VIII è semivuota, ora che i banchi e le sedie disposti al mattino per il cordoglio ufficiale sono stati portati via e resta soltanto la nostra fila. Nel rimpianto, e nella devozione affettuosa che spinge alle mie spalle perché non mi fermi troppo davanti agli stivali di un futuro Santo, come le generazioni future lo vedranno forse nelle teche di cristallo sotto l´altar maggiore di un nuovo santuario, si avverte il senso della transitorietà degli Inquilini e della permanenza schiacciante della istituzione.
Esco, spinto via da un giovane sacerdote che si incarica del ‟circolare, circolare”, voltandomi per un´ultima volta verso la sagoma ritornata grande, perché vista di lato, verso l´uscita che conduce verso le scale della discesa, spoglie, disadorne, semplici soffitti e pareti intonacate, senza mosaici, cartigli, statue, leoni e agnelli, santi o fiori.
In un luogo dove tutto è un simbolo, questa distonia fra la salita monumentale e la discesa disadorna, è un´allegoria troppo chiara perché sia casuale. Anche le guardie svizzere, severissime con chi sale divengono indifferenti, quasi distratte, con chi scende e vaga alla ricerca dell´uscita.
La signora col pupo in braccio s´infila in una stanza dalla quale esce disorientata con il bambino che si ricorda di essere un bambino piccolo e piange, l´eco degli strilli che rimbalza fino al silenzio della camera ardente. Suore tedesche si rivolgono a me perché le guidi fuori e infatti ci perdiamo miseramente. Mi seguono fino al cortile di San Damaso, dove la Maserati Quattroporte metallizzata antracite sta depositando Gianni Letta. Poi ci perdiamo nel vuoto, oltre le vetrate delle sale di Raffaello, in una sequenza di cortili vuoti e fuori da ogni scala umana come tutto in questo borgo, dai nomi incantevoli, il Cortile dei Pappagalli, il Cortile dei Borgia, al quale nessun Papa ha mai osato cambiare nome, il Cortile della Sentinella, silenziose anche la fontanella dell´Acqua Pia, dell´acquedotto, chiusa. Eppure si esce rasserenati, in quel vuoto, con la tentazione di un sorriso, nel ricordo di quelle scarpe grosse buttate in faccia al mondo per ricordare un Papa ancora in cammino.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …