Vittorio Zucconi: Nella Sistina pronta al Conclave

06 Aprile 2005
Il portone di antico rovere tarlato si chiude per l´ultima volta sul mondo, per riaprirsi da oggi soltanto ai falegnami, ai cardinali e allo Spirito Santo. Rimango solo, alle cinque e trenta dell´ultimo pomeriggio di apertura al pubblico, in quella Sistina che nel vuoto dei visitatori spinti fuori come un gregge, avvolge la mia solitudine di ultimo visitatore profano in una terrificante magnificenza, tra morti che risorgono, dannati che precipitano, profeti che ti scrutano e nel presagio della processione dei cardinali che sotto queste stesse volte si preparano a scrivere la storia della Chiesa cattolica romana. Gli uscieri mi scansano, portando via verso la Sala Regia, oltre il portone, le utili e orrende panche di plexiglas trasparente sistemate lungo le pareti per proteggere le decorazioni dalle termiti del turismo.
I riflettori si accendono brevemente per evitare che inciampino, nella semioscurità della sera che scende. E le luci violente, da studio televisivo, che fanno trasalire insieme i santi e i dannati di Michelangelo, sembrano una approssimazione profana di quella luce divina che tra poche ore dovrebbe scendere sui 117, o 118, cardinali raccolti in questo luogo, che è il grembo dal quale la Chiesa rinasce a ogni morte di Papa.
Non ci sarebbero atei, almeno non sotto le volte della Cappella Sistina, se tutti potessero rimanere soli, come ho potuto fare, e ultimi, almeno una volta, nel momento in cui chiude e torna a essere quello per cui papa Sisto l´aveva rifatta, un luogo mistico e travolgente, tagliato sulle misure del tempio di re Salomone, 40 metri e 50, per 13 e 20, sotto le volte alte 20 metri e 70 centimetri. Mentre a pochi metri di distanza si seppellisce un Pontefice morto, qui già si prepara, da oggi, un Conclave che i carpentieri hanno già anticipato da tempo, mi dicono, non da sabato scorso, nella discreta sapienza di Madre Chiesa. Hanno approntato e segato tavole e i baldacchini per 118 scranni (117 cardinali, più, per stare nel sicuro, uno per il cardinale segreto nominato ‟in pectore” da Giovanni Paolo II, mi confida il capo degli uscieri) per arredare questa sala dove ogni pennellata, ogni marmo del pavimento, ogni porticina, ogni poltroncina racconta il mistero di una continuità istituzionale senza eguali al mondo.
Nel vuoto della Sistina che si sta spogliando dei panni da attrazione turistica per rivestirsi del proprio ruolo solenne di madre, il mio compagno e guida, il ‟maestro” restauratore, come vuole il titolo ufficiale, di Maurizio De Luca, mi indica un affresco del Perugino sulla parete destra rispetto all´altar maggiore, ‟La Consegna delle Chiavi”.
Davanti a esso Wojtyla si arrestò nel suo primo ritorno alla cappella dopo esserne uscito, il 16 ottobre 1978 alle otto di sera, come Papa e dove si arrestava sempre, dopo il restauro del 1999, quando ci tornava per celebrare qualche Messa, o battesimo, o cresima, anche infermo e vacillante.
Senza mai dire nulla, Giovanni Paolo restava a guardare la figura di Cristo che consegna a Pietro la chiave del regno, quella stessa chiave che lo stesso Pietro riconsegna a Dio, ma senza più maniglia perché ormai inutile, nel Michelangelo del Giudizio Universale, dietro l´altare. Era l´illustrazione della grande promessa mantenuta, almeno nella immaginazione di artisti nei quali anche un Pontefice cercava conforto e conferma.
In luogo delle lunghe panche di plexiglas, che escono dalla porta tarlata per attendere di rientrarvi soltanto quando il nuovo Papa l´avrà riaperta, in fondo alla Sala Regia sorvegliata da uno svizzero in alta uniforme, stanno per essere portati i 117, o 118 se il nome sarà rivelato a tempo, scranni coi baldacchini pronti a cadere tutti meno uno. Già dal Conclave del 1978, i cardinali sono troppi perché possano essere sistemati soltanto lungo le due pareti a destra, come nella iconografia barocca. Debordano sulla piattaforma dell´altar maggiore, fino ai piedi del Cristo sull´altare, un Crocefisso di legno, di origine sconosciuta, forse tirolese, scolpito con corde incollate al corpo e poi coperte dalla vernice, per raffigurare realisticamente le vene. Stanno seduti a ‟U”, a ferro di cavallo, disposti secondo l´ordine deciso per sorteggio. Troveranno i loro nomi sul sedile, stampati come inviti alla festa più esclusiva e solenne del mondo, ospiti diretti del Paraclito, di Dio stesso, secondo la loro fede.
Nel 1978, al cardinale arcivescovo di Cracovia, toccò in sorte il numero 91, una delle poltrone proprio ai piedi dell´altare, alta sui tre gradoni di marmo che conducono al Crocefisso con le vene di corda, sulla sinistra, in ‟cornu Evangelii”, come diceva la liturgia in latino, dalla parte del Vangelo. Subito sopra la sua testa, all´ombra del gesto definitivo e implacabile del Cristo che dall´alto chiama o condanna, sta un dettaglio dell´affresco che il ‟Maestro” De Luca, conoscitore di ogni pennellata, mi fa osservare. Dalla palude di corpi sfatti che si alzano dalla terra per volare verso il Giudizio, c´è la morte. E´ il solito teschio incappucciato, ma al quale il pittore è riuscito a dare un´espressione di sbalordimento e di disappunto perché ‟mors stupebit”, come recita il salmo evangelico. Anche la morte rimarrà stupefatta, e disoccupata, nel giorno della resurrezione finale. Ventisette anni or sono, il teschio sbigottito fece la guardia a un futuro Papa, sulla sua testa, come se sapesse. C´è anche un ‟Codice Buonarroti” nei misteri esoterici di questa cappella che ricomincia a vivere proprio quando qualcuno muore? O è la suggestione della solitudine sotto questo cielo violento a far vedere segni e prodigi?
Dovette fare poca strada, Wojtyla divenuto Giovanni Paolo II, dopo aver risposto ‟accetto” alla domanda di rito e avere comunicato il nome che aveva scelto, simbolo della rinascita e del secondo battesimo dell´uomo che diventa capo della Chiesa. Tra lo scranno numero 91 dove era seduto e la porticina alle sue spalle dietro l´altare che portò lui, e porterà il prossimo, alla vestizione, ci sono soltanto pochi passi, ne conto appena dieci dei miei. Dietro la porticina, si apre una piccola cella spoglia, tre metri per tre, soffitti bassi, finestrina angusta quasi da carcere, pareti nude salvo per frammenti di soffitto di legno recuperati e incollati. È chiusa al pubblico, ma la squisita gentilezza del Maestro e degli uscieri mi permette di entrare. La chiamano ‟la stanza delle lacrime”, perchè quando vi entra, accompagnato soltanto dal cardinale camerlengo e dal maestro di cerimonie, ogni Papa neo eletto scoppia a piangere, oppresso dall´enormità di quanto gli è accaduto e soprattutto di quanto lo aspetta.
Ora, mentre vedo la Sistina morire e prepararsi a risorgere, nella celletta opprimente nella sua piccolezza dopo tanta enfasi, c´è ancora la piccola scrivania del custode, poggiata alla parete che forma il retro del Giudizio Universale e rinchiude un affresco del Perugino sul quale Michelangelo dipinse, incastrandolo. Sta per essere tolta.
Al suo posto, i sarti pontifici, quei Gammarelli di Roma che da due secoli vestono i Papi, avranno già sistemato a fatica in uno spazio tanto stretto, i tre manichini di taglia piccola, media e grande con la veste bianco avorio ma senza poter più intervenire. Sciami di laboriose suorine con forbici, ago e filo lo adatteranno alla sua figura, mentre il barbiere scruterà le guance e il collo per decidere se sia il caso di dare una spuntatina. In un angolo, foderata di rosso scuro, il colore più sacro, nell´angolo sotto la finestra, è una piccola ‟dormeuse”, un divanetto imbottito senza braccioli con le molle un po´ sconnesse sotto le mie mani, pronto per accomodare il nuovo Papa, se gli cedessero le gambe.
Poi, rinfrancato e vestito, il Papa uscirà da questa ‟cella del pianto”, dietro l´altare della Cappella Sistina.
Riattraverserà tutta la lunghezza della sala, passerà davanti ai 116, o 117, baldacchini collassati e ai cardinali che lo hanno eletto e si inginocchieranno al passaggio, forse alzerà gli occhi a guardare quei colossi terribili e muscolosi che lo guardano dall´alto, come hanno guardato i suoi predecessori per 500 anni, cercando anche lui, come Wojtyla un conforto in qualche più sereno affresco rinascimentale sulle fiancate, tra bambini che giocano, cagnetti che scodinzolano, fanciulle botticellesche fin troppo aggraziate per l´ambiente e vivai di piante medicinali che i botanici ancora studiano nei dipinti, per ricostruire la farmacologia Quattrocentesca. Sequenze più tranquillizzanti del kolossal di Michelangelo con i suoi ‟codici” indecifrabili e implacabili.
Oltrepasserà la grata di ferro e marmo che divide la cappella dall´iconostasi, a un terzo della sua lunghezza, non a metà come un tempo, per accogliere i sempre più numerosi cardinali in Conclave. Non degnerà di uno sguardo la balconata interna a metà navata, dove i patetici castrati di altre epoche intonavano i salmi con vocine bianche, lasciando i propri nomi graffiti nel legno e qualche nota su pentagrammi incisi alle pareti, come mi fa notare il mastro restauratore. Sfiorerà la stufa temporanea, quella che avrà appena segnalato al mondo la sua elezione fumando per il tubo sistemato, in offesa a ogni codice edilizio terreno, attraverso una doppia porta socchiusa e collegato allo scarico del camino soltanto per quella occasione.
Oltrepasserà il portone di rovere annerito e tarlato.
Piegherà a destra, con l´ultima suora che tenterà di sistemargli l´ultimo orlo, mentre il cardinale sta già annunciando il suo avvento. E finalmente sbucherà, dal fondo della sala Regia, a sinistra sulla piazza più bella del mondo.
La Sistina avrà di nuovo fatto il proprio dovere, quel giorno e ‟mors stupebit”, il teschio che già osservò perplesso dall´alto la testa di Wojtyla, si stupirà ancora una volta dell´ostinazione di questa Chiesa. Della permanenza di questo luogo, nel quale proprio Giovanni Paolo II ha sigillato per anni a venire le future elezioni e i futuri conclavi, colpito anche lui, come un visitatore solitario qualsiasi, dalla ‟cappella ove tutto concorre ad alimentare la consapevolezza della presenza di Dio”, come scrisse nel 1996 nell´editto ‟Universi Dominici Gregis”.
Quello che rimane del Papa non è in quel povero corpo con le scarpe, sul catafalco della basilica. E´ qui, nella Cappella dove lo stesso Cristo che lo incantava, si prepara a passare le stesse chiavi a un altro.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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