Vittorio Zucconi: Onu. Dentro il palazzo della pace

20 Giugno 2005
I Totem e la Balena Bianca languono l’uno accanto all’altra, in secca sulla spiaggia di Manhattan, figli di un Dio agonizzante al quale il mondo non crede più: il Dio della pace. Piovvero qui mezzo secolo fa da un altro pianeta, un luogo dove uomini spossati e sanguinanti li portarono e li adorarono, prima di scivolare inesorabilmente indietro al loro stato di natura, alla guerra. Lessi su un giornale americano che il monolito di 39 piani conosciuto come "Palazzo di Vetro", sede della "Segreteria Generale della Organizzazione delle Nazioni Unite", con la balena bianca dell’Assemblea Generale ai suoi piedi, è l’edificio più fotografato e ritrasmesso del mondo, più della Casa Bianca, della cupola di San Pietro, del Cremlino, della Tour Eiffel. Forse è anche vero, considerando che dentro si agitano - mica troppo - i figli di tutte le 191 nazioni del mondo più sciami di osservatori come i Palestinesi senza terra o il Vaticano senza corpo, e che davanti al monolito tutti si sono, una volta o l’altra, inginocchiati per implorare una grazia, salvare un bambino già nato o almeno rimediare un po’ di quattrini. Per poi dimenticarsene, o inviare un tributo frettoloso e formale, come il segno della croce superstizioso del viaggiatore davanti a una Madonnina sbiadita in un crocevia. Ricorderanno le rievocazioni ufficiali che l’Organizzazione delle Nazioni Unite, le UN, compiono ora 60 anni, essendo nate il 26 giugno del 1945, a meno di due mesi dal suicidio di Adolf Hitler e mentre "Fat Man" e "Little Boy", il ciccione e il ragazzino, avevano cominciato il loro viaggio verso Hiroshima e Nagasaki. L’idea di un’organizzazione internazionale che avesse come obbiettivo quello di eliminare la guerra come strumento per ‟risolvere le controversie” tra nazioni sovrane era già spettacolarmente fallita con la Società delle Nazioni wilsoniana. Ma questa volta, in quella precoce estate di guerra del 1945, sembrava, come sembra ogni volta, la volta buona. Troppo profondo era stato il lago di sangue, troppo mostruosa era diventata l’industrializzazione della morte e troppo reali erano la prospettive di apocalisse planetaria aperte dal "ciccione" e dal "ragazzino" per non tentare qualcosa. Le nuove Nazioni Unite avrebbero funzionato, pensarono i fondatori, non per buonismo o per idealismo, come aveva creduto Woodrow Wilson, ma per cinismo e per realismo, perché sarebbe stato nell’interesse - ecco la parola chiave, "interesse" - di tutti farle funzionare, senza distinzione fra buoni e cattivi, democrazie e totalitarismi, Occidente e Oriente, per salvare la nostra specie.
Per sette anni, da quel 26 giugno a San Francisco, cardinali e chierici della "rinuncia alla guerra" girovagarono attraverso gli Stati Uniti, aspettando che si trovasse il terreno e si completasse il progetto della loro nuova città santa. Il terreno fu trovato e donato da John Rockefeller, sulle rive dell´East River, davanti a Queens, accanto a una centrale termica, in uno spiazzo lasciato vuoto da uno speculatore fallito. Fu pagato una somma che oggi comprerebbe forse un bilocale con vista, in un condominio di lusso in quella fantastica posizione: otto milioni e mezzo di dollari per 18 acri, 7,2 ettari, 72.800 metri quadrati. Un gesto, questo della famiglia Rockefeller, che avrebbe gettato il seme della paranoia del "complotto" mondialista verso un governo planetario, molto popolare nell´America rustica fino a quando sarà rimpiazzato, con amara ironia, dal suo esatto contrario, il disprezzo per l´Onu imbelle e inetto, la "società delle chiacchiere" come lo chiamò il Dart Fenner del bushismo, Dick Cheney.
Parve allora una smagliante idea, secondo lo spirito Onu, anche quella di affidare il progetto a un comitato di luminari internazionali dell´architettura modernista, guidati dallo studio newyorkese di Wallace Harrison, dentro il quale immediatamente cominciarono ad accapigliarsi il francese Le Courbusier, il brasiliano Oscar Niemeyer, lo svedese Sven Markelius, e altri sette architetti delle nazioni vincitrici che il malcapitato Harrison doveva pilotare. Il progetto richiese sei anni, dai primi disegni di Le Courbusier alla consegna finale dell´ultimo pezzo completato nel 1953 e lasciò ‟più lividi” sull´ego di quei baroni ‟di quanti ne avrebbe lasciati una rissa tra bovari in un bordello del Kansas”, ammise Harrison poco prima di morire. Era stata, quella ideale scazzottatura fra grandi architetti vinta alla fine da Le Courbusier, un omen chiarissimo di che cosa sarebbe stata la vita quotidiana all´Onu, ma la fede nella nuova divinità della pace era più forte dell´evidenza che già gridava alle spalle dei sogni. Nel 1948, mentre il comitato di architetti litigava, il neonato Israele doveva combattere la prima delle sue molte guerre per la sopravvivenza. Il 25 giugno del 1950, mentre apriva il cantiere, le artiglierie della Repubblica Popolare della Korea aprivano il fuoco sul 38esimo parallelo.

Il "gambero umano"
Sarà dunque il senso di 60 anni di marcia trionfale del gambero umano verso la "rinuncia alla guerra" che rende particolarmente malinconica la mia visita nel ventre della balena bianca e del totem di vetro. Se non fosse per i 2.600 terminali di computer che dormono praticamente su ogni scrivania nei 38 piani di uffici (il 39esimo è un finto piano, una facciata per coprire gli impianti sul tetto) e per le macchinette dell´ormai immancabile espresso nelle caffetterie interne, i dieci architetti che li disegnarono e li arredarono si sentirebbero perfettamente a casa. Tutto è rimasto come era. Le librerie e i gift shop pubblici al piano terra, aperte a tutti, hanno quella tenera e scialba aria da edicole del socialismo reale, con dozzine di libri edificanti e pubblicazioni illustrate per bambini a gloria dell´istituzione. Mentre gli scaffali delle librerie là fuori, nel mondo reale, scricchiolano sotto i prodotti del nuovo conformismo dominante anti Onu, con titoli affettuosi come Inside the Asylum, dentro il manicomio, scritto da un ex sottosegretario nel Pentagono di Bush, Jed Babbin, dove il Palazzo di Vetro è definito ‟un covo di criminali internazionali”, qui nelle edicole di ieri si vendono graziosi francobolli commemorativi e album da colorare con girotondi multietnici e bambini sorridenti. Una testimonianza palpabile della extraterritorialità non solo legale - il complesso Onu non è sotto la giurisdizione del governo americano o del comune di New York - ma culturale del Totem, della sua solitudine.
Come se volessero mandare un messaggio di rimpianto ai primi segretari generali - il norvegese Lie Trygve, e il primo che nel 1953 occupò l´ufficio d´angolo oggi di Annan al 38esimo piano, lo svedese Dag Hammarskjold - gli arredamenti hanno tutti l´impronta di quel design scandinavo che dominava gli anni Cinquanta e Sessanta, il momento nel quale l´orologio della fede nella pace sembra essersi fermato. Persino i minimi e banali dettagli pratici - gli ascensori foderati dello stesso legno scuro immutato e lisciato da mezzo secolo di mani, i tavolini e le sedie di plastica da refettorio socialdemocratico nel ristorante per i cinquemila dipendenti del palazzo a dieci dollari per pasto e nella buvette per gli interpreti chiamata "Caffè Vienna", dove è rigorosamente vietato fumare tranne che si fuma lo stesso - raccontano la storia della ideologia garbatamente progressista e tollerante che i troppi fallimenti ben pubblicizzati, i troppi scippi di despoti e i molti successi ignorati hanno sgretolato, fino alla spallata del terrorismo e del manicheismo neo-con americano, perfetta antitesi del relativismo diplomatico.
Salire, piano per piano, i 38 livelli del grattacielo come ho fatto io con un senso crescente di "stupor" burocratico e di malinconia, vuol dire muoversi non in un palazzo di Vetro, ma in un palazzo degli Specchi. Sento il corretto, ma evidente disagio delle mie guide, gentili diplomatici della missione italiana all´Onu, i consiglieri D´Antuono e Quintavalle, ogni volta che sbuchiamo negli stessi corridoi deserti o mettiamo il naso in uffici virginali dentro i quali nessuno lavora mai, nonostante sia la tarda mattina di un lunedì feriale, perché tutti sono sempre in qualche "riunione". Loro come diplomatici, io, la mia generazione, milioni di persone esposte ovunque ai venti e alle bufere scatenate dai più forti vogliono ancora credere nel Dio morente, ma il suo tempio è vuoto, i suoi tabernacoli, sconsacrati. Il personale Onu qui a New York non ha neppure l´obbligo del cartellino, viene e va quando vuole, anche in questo caso rammentandomi i termitai kafkiani della burocrazia sovietica anni Ottanta, lo stesso clima di tutte le burocrazie chiamate soltanto a rispondere a se stesse. Chi s´intende di calcio sostiene che il personale sparso tra il Palazzo degli Specchi, i due edifici distaccati nello stesso quartiere della East End di Manhattan, detti Dc1 e Dc2, giocano secondo la tattica del 4-3-3. Su dieci, quattro lavorano duro e a volte fino al martirio di Sergio Viera de Mello a Bagdad, al sacrificio di ottocento funzionari ogni anno, rapinati, violentati, aggrediti, scomparsi, uccisi per portare un sacchetto di farina, una fiala, una parola nel mondo. Tre fanno il minimo indispensabile e tre non fanno assolutamente nulla, oltre che percepire stipendi e leccare i piedi giusti.
Tentare di ricostruire, anche con l´aiuto dell´elenco telefonico interno ufficiale che la nostra legazione guidata dall´ambasciatore Marcello Spatafora mi fornisce con involontaria crudeltà, la distribuzione degli uffici è un´impresa umanamente impossibile. Nel Palazzo degli Specchi, a parte l´ultimo piano del segretario Kofi Annan e quel magnifico arazzo che riproduce il Guernica di Picasso (regalo, toh, di un altro Rockefeller all´Onu, la signora Nelson Rockefeller), tutto è dappertutto e niente è dovunque. La proliferazione di iniziative, sottosezioni, agenzie, uffici studi, sinecure, deborda dalle destinazioni originarie e conquista, secondo un´altra classica legge territoriale della burocrazia, tutto lo spazio che trova vuoto. Il direttorato per operazioni di peace keeping, che costano cinque miliardi all´anno, ha uffici e sottouffici dappertutto. Occorrerebbe una missione di caschi blu solo per trovarli. I soldi, visibilmente, scarseggiano nella mesta pulizia di uffici ministeriali un po´ strapelati, e il bilancio base dell´Onu è immutato da anni, a 1,7 miliardi di dollari, sessanta per cento dei quali spesi per le retribuzioni, meno quattrini di quanti abbiano a disposizione i vigili del fuoco di Tokyo o il comune di Vienna. E questo doveva essere il "governo del mondo". La Organizzazione mondiale della sanità, che è un braccio dell´Onu, dispone di 412 milioni di dollari l´anno per ricercare, sorvegliare, vaccinare bambini, spegnare focolai di epidemie. Sono meno dei 420 milioni spesi per il nuovo palazzo dello Sport di Dallas, nel Texas, per la squadra locale di basket, i Mavericks.

Gli impianti allo stremo
Gli impianti, gli stessi del 1953, rabberciati e riparati per cinquant´anni al costo di quattro milioni all´anno, la metà di quanto costò il terreno ai Rockefeller, sono allo stremo. Guardare le budella del palazzo dà la sensazione di visitare le viscere di un vecchio bastimento prossimo alla demolizione. Mentre gli zelanti picconatori dell´Onu - come quel possibile nuovo ambasciatore americano Bolton che vorrebbe segare di un terzo tutta la baracca - esigono cambiamenti politici cuciti sulla misura della loro ideologia e ricordano che una struttura creata sullo schema dell´equilibrio del terrore non risponde più allo squilibro globale creato dal terrore, riforme politiche e ristrutturazioni fisiche diventano allegoria le une delle altre. C´è un piano maestro, un "Master Plan" per svuotare le budella del Totem e della sua Balena, con un ridicolo preventivo di 1,2 miliardi di dollari e un tempo di consegna poetico di tre anni, ma nessuno vuol pagare. Non gli Americani, che hanno soltanto promesso provocatoriamente finanziamenti ai tassi commerciali, circa il sei per cento, come si darebbe a una qualsiasi coppietta di sposi. Da anni Washington, pre-con, neo-con, post-con, neo-lib, paleo-lib o qualunque cosa essa diventi dopo George W Bush, vuol pagare soltanto per un Totem devoto e una Balena addomesticata.
Mancano i soldi, ma soprattutto manca il morale, sostituito dalla routine di servire soltanto come foglia di fico per governi che disprezzano l´Onu e poi lo invocano per giustificarsi, o come zeppetta da ficcare ogni tanto negli ingranaggi degli interessi americani, più per tigna che per alternative strategiche da proporre. In una delle tre sale per conferenze, dentro la Balena Bianca dell´Assemblea Generale dove è appena stato eletto, per la prima volta in oltre mezzo secolo, finalmente, anche un vice presidente Israeliano dell´assemblea, ascolto per qualche minuto la testa biondissima di Carla Del Ponte, il "pubblico ministero" del tribunale dell´umanità, leggere un rapporto che gli altri delegati ascoltano o con indifferenza o con la inquietudine di chi ha la coda di paglia. Si aspetta. Tutti aspettano, qua dentro, qualcuno, qualcosa, la grande svolta, la grande riforma, la botta americana che stroncherà definitivamente Kofi Annan con uno scandalo e un´accusa infamante ora che i suoi ex sponsor di Washington lo hanno abbandonato. Si aspetta il piccone che smuffirà i piani e le teste, il nuovo segretario generale, un nuovo attacco dal cielo a quel grattacielo che sta solo come il dente di un vecchio, sulla sponda dell´East River, magnifico bersaglio. Soprattutto si aspetta qualcuno che abbia ancora voglia di credere al magnifico Totem abbandonato sulla spiaggia della sua solitudine, ma che sia qualcuno di importante, non più soltanto quei bambini famelici e quelle madri con i seni rinsecchiti, che ancora credono a quelle due lettere nere sulle jeep bianche - UN - come all´angelo custode, ma che nel mondo dei forti e dei duri non contano mai niente.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …