Michele Serra: Live 8. La globalizzazione della solidarietà

04 Luglio 2005
Tutte le rughe del rock, da quelle morbide e liete del baronetto McCartney a quelle scavate e tese della sublime e pallida Annie Lennox. E tutta la retorica del rock, il mondialismo buono e affratellante, l’antirazzismo naturale e cosmopolita che fu dei capelloni e dei globe-trotter (i nonni dei fiori), l’estasi promiscua e brulicante dello "stare insieme", l’energia dei decibel come metafora della voce dei popoli. Le parole d’ordine edificanti e virtuose non molto progredite dai tempi di "peace and love", anche se favorite, oggi, dalle entrature politiche delle pop-star presso i leader mondiali loro coetanei, ex capelloni al potere e incravattati per ragion di Stato come Blair, Fischer, Veltroni. (Bush no, Bush era desolatamente Bush anche a quindici anni). Ma proprio per questo, per la sua prevedibile enfasi, il suo fracasso vigoroso e già sentito, direi, in una sola parola, per la sua ingenuità smagliante, il concertone multicontinentale pro-Africa aveva qualcosa di irresistibile. E non tanto per il cast, per quantità e qualità davvero storico, quanto per la volontà di essere quello che la musica pop è ormai da tempo, la faccia amichevole del villaggio globale, forse la sola lingua, insieme al calcio, che sia riuscita a essere davvero transnazionale senza essere (quasi mai) imperiale.
L’articolo di Paul McCartney pubblicato ieri su questo giornale proprio questo era: amichevole e disarmante, socievole e ottimista, era il discorso di un intellettuale popolare abituato all’immediato intendersi delle canzoni, non calibrato, non scafato, soprattutto non cinico. E dire "non cinico", di questi tempi, è probabilmente il massimo riconoscimento di anticonformismo possibile.
Il secco ‟siamo qua perché ci crediamo” con il quale il rude e potente Piero Pelù, dal palco romano, ha salutato il pubblico, era il riassunto perfetto di tutte le altre didascalie pronunciate da divi e divine sui palchi di mezzo mondo, non più elaborate della sua, non più raffinate, e alcune viziate dall’aggressività indotta forse dall’imbarazzo di essere molto ricchi e testimonial di poverissimi: eppure non c’era il puzzo, così riconoscibile, dell’ipocrisia, perché in fin dei conti Live 8 esattamente questo era, provare a credere che una botta di grancassa ben sincronizzata possa incidere sul rumoroso e caotico silenzio che circonda la fame, la sete e la schiavitù della miseria. Almeno per un giorno, e almeno per chi ha orecchio. Perché, certo, salire su un palco e dire a qualche milione di spettatori che ogni tre secondi, in Africa, un bambino muore di fame, è quasi indisponente considerando il buffet dietro le quinte, ma è anche terribilmente, implacabilmente vero, e non è che dirlo una volta di più faccia poi così male, considerata l’impaurita indifferenza nella quale si vive un po’ tutti, e la tirchieria etica e sentimentale che batte il ritmo del potere mondiale.
A parte la virtù dell’ingenuità e dell’anticinismo, l’altro fenomeno che ha animato Live 8 è l’impressionante azzeramento delle barriere generazionali, con i teen-ager che cantano a memoria canzoni scritte molto prima che nascessero, gli artisti giovani che tradiscono, quasi tutti, la continuità con i modelli tracciati quasi mezzo secolo fa dai loro padri, e gli artisti anziani, oramai intorno ai sessanta, che portano il loro repertorio nella serena certezza che sia assolutamente contemporaneo. Lasciando agli esperti il compito di stabilire se questo consacri come geniale il pop delle origini, oppure condanni come mediocri le nuove leve, quello che interessa maggiormente è la longevità di un pezzo quasi primordiale della cultura di massa: quella del cosmopolitismo pacifista, del "peace and love", della giustizia e della libertà intese come sentimento naturale e non come ideologia "scientifica". Fu, quella, la parte migliore, e dunque quella giustamente sopravvissuta, dei ragazzi ribelli dei Sessanta e della loro mitologia, dei loro poster barbuti e dei loro dischi schitarranti. Di là viene la scintilla di Live 8, organizzato da un adultissimo e incanutito rocker come Bob Geldof, animato da molti vecchi ragazzi come McCartney, inutile quanto è inutile nutrire qualche buon pezzo di verità e qualche buon proposito.
La promozione dei dischi, il business, la pubblicità facile, quel tanto di sempre peloso che c’è nella propaganda altruista e caritatevole, tutto questo viene prima o viene dopo, non certo durante quel lungo momento nel quale alcuni tra i migliori artisti del mondo hanno provato disperatamente a credere, nonostante gli anni, i miliardi e il potere, di non essere diventati cinici
Tutte le rughe del rock, da quelle morbide e liete del baronetto McCartney a quelle scavate e tese della sublime e pallida Annie Lennox. E tutta la retorica del rock, il mondialismo buono e affratellante, l’antirazzismo naturale e cosmopolita che fu dei capelloni e dei globe-trotter (i nonni dei fiori), l’estasi promiscua e brulicante dello "stare insieme", l’energia dei decibel come metafora della voce dei popoli. Le parole d’ordine edificanti e virtuose non molto progredite dai tempi di "peace and love", anche se favorite, oggi, dalle entrature politiche delle pop-star presso i leader mondiali loro coetanei, ex capelloni al potere e incravattati per ragion di Stato come Blair, Fischer, Veltroni. (Bush no, Bush era desolatamente Bush anche a quindici anni). Ma proprio per questo, per la sua prevedibile enfasi, il suo fracasso vigoroso e già sentito, direi, in una sola parola, per la sua ingenuità smagliante, il concertone multicontinentale pro-Africa aveva qualcosa di irresistibile. E non tanto per il cast, per quantità e qualità davvero storico, quanto per la volontà di essere quello che la musica pop è ormai da tempo, la faccia amichevole del villaggio globale, forse la sola lingua, insieme al calcio, che sia riuscita a essere davvero transnazionale senza essere (quasi mai) imperiale.
L’articolo di Paul McCartney pubblicato ieri su questo giornale proprio questo era: amichevole e disarmante, socievole e ottimista, era il discorso di un intellettuale popolare abituato all’immediato intendersi delle canzoni, non calibrato, non scafato, soprattutto non cinico. E dire "non cinico", di questi tempi, è probabilmente il massimo riconoscimento di anticonformismo possibile.
Il secco ‟siamo qua perché ci crediamo” con il quale il rude e potente Piero Pelù, dal palco romano, ha salutato il pubblico, era il riassunto perfetto di tutte le altre didascalie pronunciate da divi e divine sui palchi di mezzo mondo, non più elaborate della sua, non più raffinate, e alcune viziate dall’aggressività indotta forse dall’imbarazzo di essere molto ricchi e testimonial di poverissimi: eppure non c’era il puzzo, così riconoscibile, dell’ipocrisia, perché in fin dei conti Live 8 esattamente questo era, provare a credere che una botta di grancassa ben sincronizzata possa incidere sul rumoroso e caotico silenzio che circonda la fame, la sete e la schiavitù della miseria. Almeno per un giorno, e almeno per chi ha orecchio. Perché, certo, salire su un palco e dire a qualche milione di spettatori che ogni tre secondi, in Africa, un bambino muore di fame, è quasi indisponente considerando il buffet dietro le quinte, ma è anche terribilmente, implacabilmente vero, e non è che dirlo una volta di più faccia poi così male, considerata l’impaurita indifferenza nella quale si vive un po’ tutti, e la tirchieria etica e sentimentale che batte il ritmo del potere mondiale.
A parte la virtù dell’ingenuità e dell’anticinismo, l’altro fenomeno che ha animato Live 8 è l’impressionante azzeramento delle barriere generazionali, con i teen-ager che cantano a memoria canzoni scritte molto prima che nascessero, gli artisti giovani che tradiscono, quasi tutti, la continuità con i modelli tracciati quasi mezzo secolo fa dai loro padri, e gli artisti anziani, oramai intorno ai sessanta, che portano il loro repertorio nella serena certezza che sia assolutamente contemporaneo. Lasciando agli esperti il compito di stabilire se questo consacri come geniale il pop delle origini, oppure condanni come mediocri le nuove leve, quello che interessa maggiormente è la longevità di un pezzo quasi primordiale della cultura di massa: quella del cosmopolitismo pacifista, del "peace and love", della giustizia e della libertà intese come sentimento naturale e non come ideologia "scientifica". Fu, quella, la parte migliore, e dunque quella giustamente sopravvissuta, dei ragazzi ribelli dei Sessanta e della loro mitologia, dei loro poster barbuti e dei loro dischi schitarranti. Di là viene la scintilla di Live 8, organizzato da un adultissimo e incanutito rocker come Bob Geldof, animato da molti vecchi ragazzi come McCartney, inutile quanto è inutile nutrire qualche buon pezzo di verità e qualche buon proposito.
La promozione dei dischi, il business, la pubblicità facile, quel tanto di sempre peloso che c’è nella propaganda altruista e caritatevole, tutto questo viene prima o viene dopo, non certo durante quel lungo momento nel quale alcuni tra i migliori artisti del mondo hanno provato disperatamente a credere, nonostante gli anni, i miliardi e il potere, di non essere diventati cinici.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …