Vittorio Zucconi: La Guerra fredda sul fronte lunare

11 Luglio 2005
Albert dormiva il sonno plumbeo dell´anestesia, la mattina del 1948 in cui sarebbe salito in cielo. Non potè dire nulla, nessuna frase per i posteri. Era soltanto un soldatino e non c´era comunque molto che avrebbe potuto fare o dire, visto che era, oltre che anestetizzato, un macaco. Era ancora addormentato quando si spiattellò al suolo pochi minuti dopo essere stato sparato a 110 chilometri di altezza dentro il naso di una V2 tedesca ridipinta con i colori americani. Gli addetti della base di White Sands in New Mexico spazzarono via i rottami suoi e del razzo e nessuno nel mondo esterno seppe nulla. Eppure Albert avrebbe potuto dire, come un suo lontano e più evoluto parente avrebbe detto 21 anni dopo mettendo la zampa sulla Luna, che quello era stato un piccolo sacrificio per una scimmia, ma un balzo gigantesco per i suoi cugini umani. Era stato il primo volo di una creatura vivente in un missile sub orbitale nella storia della Creazione.
Ora che il prossimo ritorno in cielo di una navetta spaziale americana, la Discovery, riesuma l´angoscia della lunga cremazione in volo della gemella Columbia due anni e mezzo or sono, Alberto I (ci fu anche un Alberto II, poco dopo, che fece la stessa fine) è soltanto il ricordo di quanto poco tempo sia passato da quando uomini e animali tentarono per la prima volta di arrampicarsi in cielo. E di quante vite, di scimmie, cani, rane, girini, gatti, topi, ragni, formiche, uomini e donne siano state consumate nell´ arco di un´esistenza umana, mezzo secolo, per mettere un piede oltre la soglia del terzo pianeta dal Sole. Due terzi dei terrestri sono figli dello spazio, nati dopo il 1957 sotto il segno dello Sputnik. La metà di noi sono nati dopo Gagarin, nel 1961, uomini e donne che considerano scontato accendere la tv e vedere in diretta eventi all´altro capo del pianeta, guidare l´auto sotto l´occhio di un satellite che indica dal cruscotto quando svoltare a destra e guardare la Terra dall´alto in basso, bianca e azzurra, come nessuno dei loro progenitori l´aveva mai vista.
Ma nel 1948, mentre gli americani trafficavano con i residuati delle V2 portate da quel Werner Von Braun che si era arreso a un soldato semplice a Peneemunde e altrettanto facevano i sovietici sotto la guida di Sergei Korolev e dei loro tedeschi prigionieri, l´Italia e tanta parte del mondo sognavano al massimo una minestra e un motoscooter e misuravano lo spazio in metri cubi da ricostruire sulle rovine, non certo nei 39 mila chilometri all´ora necessari per sfuggire al risucchio gravitazionale della Terra. Le scimmiette americane si sbriciolavano in segreto sotto lo sguardo indifferente di Dwight Eisenhower che, vecchio fante, allo spazio non credeva. Korolev e i suoi erano stati spediti da Stalin nelle steppe infinite del Kazakhstan in una località segreta chiamata Tyuratam. E noi non alzammo il naso dalle Vespa e dalle Seicento fino a alla notte del 5 ottobre del 1957 quando un missile chiamato R-7 mise in orbita un football metallico di 60 centimetri di diametro con quattro lunghe antenne, lo Sputnik che trasmise sulle nostre radio, da 939 chilometri di altezza, i "bip bip" che cambiarono il mondo.
Chi di noi ascoltò i vagiti dello spazio non li dimenticherà mai più, come non saranno dimenticate le orecchie molli di Laika, la prima creatura morta in orbita, arrostita dentro la sua scatola senza speranze di rientro, o la faccia larga da contadino della Bassa di Yuri Gagarin, sparato dentro una palla di cannone con un oblò, un giroscopio, un altimetro e niente altro, il 12 aprile del 1961, mentre ancora i possenti Stati Uniti guardavano i loro missili Vanguard e Juno disintegrarsi alla partenza. Come sarebbe accaduto pochi anni dopo, al momento dell´allunaggio di "Eagle" nel Mare della Tranquillità, non ci si volle quasi credere, qualcuno pensò a effetti speciali, a trucchi da studio. Molti rifiutarono di accettare che quei russi che non riuscivano a produrre abbastanza patate e verze per sfamare i loro mugiki, avessero messo un uomo tra le stelle. La propaganda comunista gongolava. La propaganda anticomunista fremeva e diffondeva il sospetto che fossero tutte balle. Nei locali di quell´estate si suonava un tango: tango Gagarin, tango bugiardo, cantava il refrain. L´Occidente avrebbe dovuto aspettare il 1962, e il primo satellite per trasmissioni televisive, il Telstar della Att, per prendersi una piccola rivincita musicale. Gli altoparlanti lanciavano le note tremolanti e pateticamente science-fiction del "number 1 hit" del momento, appunto Telstar della band inglese I Tornado.
Come fece Yuri a sopravvivere in tuta da compagno pallavolista con elmetto dentro quel proiettile da barone di Munchausen che vidi nel museo della "Città delle Stelle" accanto a Mosca, è un mistero da lasciare ai disegni della Provvidenza, più che a quelli dei progettisti di Korolev. Ma Gagarin, e quelli che i russi battezzarono "cosmonauti" tanto per non accordarsi neppure nel nome con gli americani che li chiamarono "astronauti", scatenò una passione per lo spazio che oggi, al popolo della padellina parabolica sul balcone di casa e scosso ormai soltanto dal brivido della possibile catastrofe, sembra impossibile. Ma allora fu febbre, per noi sotto, nello stadio della Guerra fredda, tifo, ideologia, politica, fantascienza, spettacolo. Cominciò la gara al più grosso, più lontano, più spettacolare, che John Kennedy accettò puntando il dito sulla Luna. Era il duello Urss contro Usa, gli astronauti del Bene contro i cosmonauti del Male o viceversa secondo le tessere (Bush e i suoi neo con non hanno inventato nulla), fu la sfrontatezza coraggiosa della democrazia contro la torva paranoia del totalitarismo. Guardavamo i filmati dei fallimenti americani, i Kaputnik e i Flopnik, come li sfottevano i giornali Usa. Anche quando finalmente spedirono in orbita una sorta di pompelmo, assai più piccolo del vecchio Sputnik, che forza! dicevamo noi dalla Curva Ovest, che grande Paese questa America che non aveva paura di esibire anche i propri flop e i propri kaput. La Guerra Fredda fu vinta da chi ebbe il coraggio dei propri errori, delle verità imbarazzanti, dell´umiltà.
Sarebbe costata 25 miliardi di dollari la scala per la luna voluta da Kennedy e costruita dal genio ex nazista convertito, quel Saturno V alto 110 metri, una casa di 36 piani, capace di accelerare da 0 a 39 mila chilometri all´ora in 300 secondi che oggi giace sulla spiaggia di Cape Canaveral come la colonna caduta di un tempio crollato, per le foto dei pochi turisti. Fu necessario inventare e fabbricare tutto da zero, dalle viti ai sistemi di guida, per salire fino alla Luna in meno di 10 anni, per creare microcomputer che fossero più potenti di quelli che allora avevano la potenza di una calcolatrice da uovo di Pasqua. Seguivamo la preparazione degli astronauti come quella dei calciatori prima di un Mondiale. I primi "Magnifici Sette". Armstrong, l´enigmatico personaggio che avrebbe posato Eagle, il modulo di atterraggio, sulla Luna, Buzz Aldrin, il suo compagno di viaggio al quale ancora si spezzava la voce quando lo incontrai trent´anni dopo nel suo bungalow di Manhattan Beach, in California, al racconto di quei secondi finali, quando lui dava i tempi ad Armstrong, «Neil, siamo in riserva», «Neil, o tocchiamo ora o non ripartiremo mai più dalla Luna», Neil, Neil, e Neil zitto cercava un tratto senza rocce per le fragili zampe del modulo. Fummo raccapricciati quando nel 1967 tre di loro, Grissom, White e Chaffee, furono carbonizzati nell´incendio dell´ossigeno puro dentro il loro Apollo 1, uccisi senza essersi mai staccati di un millimetro dal suolo.
Forse la vittoria della nostra squadra con il Team Urss fu troppo schiacciante, alla fine troppo facile, perché l´eccitazione potesse sopravvivere al risultato dopo l´attesa. Dal momento in cui Aldrin e Armstrong allunarono nella notte, mentre i russi sparacchiavano ancora inutili sonde chiamate Luna, si capì che la partita era chiusa, che la luna non era fatta di formaggio ma di sterili rocce, che eravamo un po´ più soli nel nostro sistema solare. La guerra era vinta, e che la gara avrebbe preso altre strade, sbandando fino alla follia di un vecchio fisico ungherese, Eduard Teller, che negli anni ´80 avrebbe convinto un altro vecchio, Reagan a credere al romanzo delle guerre stellari, degli scudi spaziali, della militarizzazione spudorata dello spazio, un mito ideologico che ancora sopravvive, nonostante la spaventosa dimostrazione di inutilità data ancora prima di nascere, quel giorno 11 del settembre 2001, quando i satelliti guardarono impotenti quattro aerei civili compiere la loro strage.
Si disse che il maledetto Stanley Kubrick avesse rovinato tutto, con il suo Odissea nello Spazio uscito nel 1968 sulle intuizioni di Arthur Clarke, che anticipava meglio della realtà gli effetti dei viaggi orbitali e aveva scatenato nelle platee dei cinema l´attesa esoterica di monoliti, civiltà sepolte, assistenti di volo lunari in minigonna, valzer straussiani, computer onniscenti che la tecnologia di allora non poteva neppure sognare. Il 2001 sembrava il futuro ed è già ieri. Certamente il lattiginoso segnale in bianco e nero che ci arrivò dai 400 mila chilometri di distanza del Mare della Tranquillità, nella notte italiana fra il 20 e il 21 luglio 1969, non poteva competere con il cinemascope a colori 70 mm, ma avevamo il cuore in gola, e qualcuno di noi pianse, quando Arrigo Levi in diretta su Rai Uno gridò che "Eagle" aveva toccato il suolo e anche i sovietici, lo sapemmo dopo, erano scoppiati in un applauso commosso e spontaneo. Per una notte tutti smisero di fare il tifo. La partita era stata vinta, ma da tutto lo stadio.
Oggi, dopo il crepuscolo malinconico dei viaggi lunari che si trascinarono fino all´Apollo 17 del 1972 nella indifferenza del pubblico rotta soltanto dal grido di Apollo 13, «Houston, abbiamo un problema qui a bordo», la scalata allo spazio vive nella realtà incrementale del quotidiano, scosso dai magnifici trabiccoli che arrancano sulla superficie marziana cercando batteri fossili e tracce d´acqua e dalle fatiche del traghetto spaziale, lo Shuttle, arrivato allo stremo della propria utilità e dei propri fondi. Il sacrificio di Albert, di Laika, dei cosmonauti russi uccisi nel silenzio della propaganda, dei tre di Apollo 1, dei sette di Challenger «che toccarono il volto di Dio» come disse Reagan al funerale, e di Columbia consunta in diretta nel febbraio del 2003, hanno dato i loro frutti fantastici e paradossali. Hanno mostrato le possibilità e i limiti di una frontiera ancora troppo distante per i nostri mezzi tecnici e hanno popolato la nostra vita quotidiana con la normalità che tutto banalizza e sbriciola.
Il nostro cielo brulica di rottami e di satelliti funzionanti che 50 anni fa non esistevano. Russi, americani, europei, giapponesi, ora anche i cinesi, hanno riempito la soffitta della terra con 4.500 satelliti artificiali. Di essi ancora 2.200 sono in orbita, funzionanti o spenti, calcola la Nasa, e almeno 70 mila oggetti di misura superiore ai due centimetri flottano attorno alla terra, molti di loro frammenti dei satelliti nucleari sovietici Rorsat. Lo Shuttle, con quella sua sagoma che sembra una preghiera e ricorda il Sacré Coeur di Parigi, è la fine dell´inizio, un ramo che ha dato frutti ma si sta seccando. Come scialuppa di salvataggio dallo spazio la Nasa deve affidarsi alla venerabile Soyuz sovietica, perché sono mancati i fondi, la voglia e il tempo per progettare e costruire una scialuppa americana. Oltre lo Shuttle, nell´attesa di quella spedizione su Marte sempre promessa da presidenti in caccia di scoop propagandistici, per noi umani nello spazio non c´è più nulla di imminente in cantiere. La strada aperta dal sacrificio di Albert nel 1948 è arrivata alla fine. Se ne apriranno altre, e nuove generazioni sgraneranno gli occhi davanti alle strade che si apriranno, ma la prima parte del viaggio è finita. Che il viaggio di Discovery sia noioso e che i nostri nipoti possano provare quello che provammo noi, quando toccammo il cielo con un piede.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …