Luigi Manconi: Il terrorismo e le mode dei falsi tabù

18 Luglio 2005
‟Aiuto! Sta arrivando il terrorismo islamista e io non ho nulla da mettermi”. Sembra questo il sentimento prevalente e lo "spirito del tempo" nella comunità politico-intellettuale, specie italiana. Come quando, dopo un terremoto, tutti discettiamo di Richter e Mercalli, epicentri e scosse di assestamento, così - dopo gli attentati di Londra - accade che nessun commentatore si senta rispettabile se non propone la sua bella ricetta per ‟limitare le libertà democratiche”. Con sofferta macerazione, sia chiaro. Il non farlo appare - allo sguardo corrusco del moralismo fattosi superprocura - o complice o, nella migliore delle ipotesi, irresponsabile. All'origine c'è, palesemente, un meccanismo elementare e, insieme, inesorabile: ovvero un auto-ricatto morale. Nessun discorso - analisi o proposta - è fattibile se non accompagnato dalle sue ‟truppe”: nessuna riflessione può rinunciare alla sua ‟armatura” e al suo ‟apparato bellico”. Il caso più interessante - proprio perché il più imprevedibile - è rappresentato da un editoriale di Claudia Mancina sul ‟Riformista” dell'altro ieri. Vi si leggono cose intelligenti e sagge, come spesso negli articoli della Mancina, ma sembrano tutte finalizzate a introdurre l'atto finale: una sorta di agnizione ideologica, di quelle che il giorno dopo i quotidiani - adottando il paradigma retorico detto ‟Urca! se l'ha sparata grossa” - presentano così: ‟la Mancina ha rotto un tabù”; e via con un commento di uno della sinistra cosiddetta radicale (che so? Cesare Salvi) e di uno della sinistra cosidetta liberal (che so? Enrico Morando). Qual è il ‟tabù” che la Mancina avrebbe ‟rotto”? Presto detto: ‟cominciare a considerare reato, almeno in certe circostanze (pubblicità e militanza), anche la diffusione di idee fondamentaliste”. Ne dovrebbe conseguire: 1. per quanto riguarda gli stranieri, ‟non tollerare che nelle moschee e nei centri islamici si sostengano tesi simpatetiche nei confronti del terrorismo”; 2. per quanto riguarda gli italiani, ‟non permettere più le assemblee con rappresentanti della 'resistenza irachena', che ancora si svolgono nelle università”. Ora, non consideriamo - per un attimo - gli aspetti di diritto, le implicazioni giuridiche e sociali e culturali che un simile intervento comporterebbe sul piano delle libertà fondamentali. Affrontiamo, piuttosto, un ragionamento preliminare e - nel caso in questione - dirimente: ovvero quello politico. Esso impone un criterio elementare: il ‟test dell'efficacia”. In altre parole, della congruità allo scopo. E, dunque, ‟non permettere più assemblee con rappresentanti della 'resistenza irachena'‟ contribuisce in qualche misura - anche la più modesta - alla lotta contro il terrorismo islamista? È altamente probabile che la risposta sia un No tondo tondo. E, in ogni caso, spetta a chi sostiene una simile misura dimostrarne la validità. Spetta comunque: e tanto più quando il provvedimento in questione è destinato a incidere così in profondità sul nostro sistema delle garanzie. Analogamente, come si può pensare che il ‟non tollerare (...) tesi simpatetiche nei confronti del terrorismo” aiuti a catturare un solo militante di Al Qaeda? Al più, si individueranno quanti coltivano - o meglio: accettano di esprimere pubblicamente - la loro ‟simpateticità” col terrorismo. Ma proprio l'identità degli attentatori di Londra, oltre a confermare inequivocabilmente - già sotto il profilo sociologico - che esecutori e complici tutto sono tranne che ‟quelli dei Cpt”, dimostra che il loro stile di vita non è certo quello dell'agit-prop dell'islamismo radicale o dei ‟chierici” delle moschee.
Pertanto, la lotta al terrorismo richiede, palesemente, strategie di tutt'altra natura; e se, dunque, il ‟test dell'efficacia” appare votato all'insuccesso - e ripeto: spetta agli altri dimostrare che così non è - il test della ‟qualità garantista” acquista ancora maggiore pregnanza. Ora, detta così, le ‟idee fondamentaliste” ricordano in maniera impressionante le ‟idee sovversive”: e la loro equiparazione a fattispecie penale ha sempre rappresentato, nella storia dei regimi liberali e democratici, un passaggio decisivo verso una possibile involuzione autoritaria (come Claudia Mancina sa benissimo).
È chiaro lo stato di disagio da cui nascono ipotesi simili: ma l'impotenza che avvertiamo nelle analisi, anche le più raffinate, quasi fossero incapaci, o spaventate, di fronte alla prospettiva di ‟sporcarsi le mani” con la realtà del terrorismo, non dev'essere cattiva consigliera. E indurci all'errore più disastroso: quello che nasce dalla confusione delle competenze e delle responsabilità.
Né io né Claudia Mancina siamo il ministro dell'Interno (io, sicuramente no): altri sono i nostri compiti, se vogliamo assumerceli e, soprattutto, se qualcuno ce li riconosce. E questo vale anche sul piano politico-istituzionale: è certamente possibile adottare - contro il terrorismo islamista - strategie e misure condivise dal centrodestra e dal centrosinistra; ma questo non comporta l'annullamento delle differenze di ruoli e di funzioni, di opzioni e di prospettive. Il che non vuol dire, in alcun modo, ‟chiudersi nel recinto dell'opposizione”, ‟pronunciare solo dei no”, ‟non assumersi responsabilità di governo”. Significa, piuttosto, coltivare un'idea dell'opposizione, che - anche quando si prepara a governare (e spero vivamente che accada) - sappia ben distinguere i rispettivi compiti e le rispettive culture. La nostra cultura, vorrei che fosse quella delle garanzie, dei diritti e delle libertà. Non solo perché ‟più giusta”: anche perché ‟più efficace”. ‟Considerare reato, almeno in certe circostanze (...) la diffusione di idee fondamentaliste” è, davvero, una pessima idea fondamentalista.

Luigi Manconi

Luigi Manconi insegna Sociologia dei fenomeni politici presso l’Università IULM di Milano. È parlamentare e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Tra i suoi libri …