Vittorio Zucconi: Il caso Rove che spaventa la Casa Bianca

19 Luglio 2005
Stretto nel cappio della lealtà verso chi lo fece re e assediato da un´opposizione che cavalca l´onda doppia del disastro iracheno e della crescente disapprovazione nazionale, George Bush deve nascondersi dietro le parole, come l´odiato Clinton, per salvare colui che lo ha creato e dunque se stesso. Il "Caso Rove", dal nome del Richelieu della Casa Bianca, quel Karl Rove al quale Bush deve tutti i propri successi elettorali, sta invadendo da giorni le copertine dei massimi settimanali nazionali, ‟Time” e ‟Newsweek”, i televisori, eccitando gli oppositori e turbando i sostenitori, con la minaccia – o la speranza – che il Presidente sia costretto a scaricare l´uomo che da anni è il suo cervello. ‟Se qualcuno ha commesso un reato in questa Casa Bianca, sarà cacciato” ha detto ieri sera dopo giorni di silenzio e di farfugliamenti del portavoce presidenziale assediato dai reporter. Ed è appunto dietro una parola, ‟reato”, che Bush si è nascosto per salvare, nel cardinale della Casa Bianca che controlla un Presidente che dovrebbe controllare lui, quel che rimane di una presidenza caduta nella maledizione del secondo mandato. La maledizione che distrusse Nixon, azzoppò Reagan e paralizzò Clinton.
Ricostruire con precisione il "Caso Rove" è fattualmente impossibile, fino a quando l´inchiesta giudiziaria del procuratore speciale Fitzgerald sarà, come è, in corso. Ma alcune cose sono già chiare e indiscutibili. La matrice di tutto il caso è, ancora una volta, la decisione americana di invadere l´Iraq nel 2003 sulla base di ‟prove” che avrebbero giustificato la ‟guerra preventiva”. E nessuno di questi timori fu più grave, e più strombazzato dalla Casa Bianca, da Blair, dai media, della ‟minaccia nucleare”, concretizzata nell´acquisto da parte di Saddam Hussein, di una partita di uranio nigerino.
‟Non si può aspettare una pistola fumante, se quel fumo può prendere la forma di un fungo atomico” fu il mantra efficacissimo martellato da Washington nelle settimane del battage propagandistico.
Ma se quell´uranio non fosse mai esistito, se i documenti esibiti dai servizi britannici, spacciati da pataccari in Italia, citati da Bush in un discorso alla nazione, fossero stati falsi, la credibilità personale del Presidente e la legittimità della guerra, avrebbero cominciato a dipanarsi come una matassa tirata anche da un solo filo. E proprio questo sta nel nucleo del "Caso Rove" e lo spiega nella sua essenza politica. Ci sta il rapporto alla Cia che un diplomatico americano, Joe Wilson, fece dopo una missione speciale in Niger, nel quale, come avrebbe fatto più tardi, in forma solenne e inascoltata davanti all´Onu il direttore dell´agenzia atomica internazionale, el-Baradei, negò che quell´uranio fosse mai arrivato a Bagdad. Diretto referente di Wilson, alla Cia, era la moglie, la signora Valery Plame, nella sezione "Armi di Distruzione di Massa" dell´agenzia, veterana di operazioni segrete di intelligence.
Quando Wilson, in un articolo per il ‟New York Times”, smentì che l´Iraq avesse mai acquistato o posseduto materiale fissile per armi atomiche, il suo matrimonio con l´agente Plame fu rivelato da un ‟uccellino”, o da un intero stormo di canarini come ora sembra, a vari giornalisti e pubblicato da un commentatore di destra, Novak, per demolire l´attendibilità di questo ambasciatore Wilson, marito di chi lo aveva scelto. La tecnica era classico Rove d´annata: demolire il messaggero per cancellare il pericolo del messaggio. Il rapporto coniugale tra l´ambasciatore e la sua "controllora" non cambiava nulla, sul terreno delle ‟armi nucleari” inesistenti, ma ridicolizzava i protagonisti nei salotti della capitale.
La reazione della Casa Bianca fu secca e immediata. Nessuno ha bisbigliato quel nome da qua dentro: ‟Se qualcuno è coinvolto nella fuga di notizie, non farà più parte di questo governo”. Punto. ‟Coinvolto” e basta, si noti. Non si parlò di reati, di crimini, di rango della signora Plame, se essa fosse ‟covert” od ‟overt”, agente segreto o scoperto, o se fosse qualcosa di mezzo tra l´agente e il semplice funzionario. Con ancora più chiarezza, intervenne Bush in persona, il 30 settembre del 2003: ‟Se qualcuno ha fatto uscire informazioni riservate, voglio sapere chi è e prenderò i provvedimenti necessari”. Corse subito la voce che quel ‟qualcuno” potesse essere Rove, ma non c´erano prove.
Oggi, dopo due anni di inchieste giudiziarie, le prove che Karl Rove abbia avuto almeno una parte nel suggerire quel nome a un giornalista di ‟Time”, Matt Cooper, sembrano esserci e la muta dei reporter sempre meno intimidita da un Bush in declino si è finalmente svegliata, scossa anche dalla condanna al carcere inflitta a una collega, Judith Miller del ‟New York Times”, che non ha voluto confessare al magistrato il nome del suo ‟canarino”. E le parole dette da Bush nella fine estate del 2003 sono tornate a tormentarlo, come le celebri parole di Nixon durante il Watergate (‟Non sono un disonesto”) o il leggendario ‟non ha mai avuto relazioni sessuali con questa donna” di Clinton.
I democratici hanno chiesto la testa di Rove, lo stratega che li ha bastonati e tormentati per un decennio. La destra bushiana, in difficoltà tra il caos iracheno che divora vite senza proteggere le città d´Occidente e i sondaggi che condannano il loro leader, guardano con i brividi alle elezioni politiche del 2006.
E Bush, l´uomo che ‟ha una parola sola” che ‟sempre fa quello che dice”, che ‟avrebbe riportato onore nella Casa Bianca”, l´uomo al quale anche i critici più aspri riconoscono almeno la coerenza, è costretto a giocare con le parole per non restarvi impiccato e per salvare il suo ‟cervello”. Ha introdotto la parola ‟reato” nella formula di allora, trasformandola nel ‟se qualcuno ha commesso un reato” di ieri. Sa che sarà impossibile dimostrare che Rove, sussurrando quel nome già scritto in memorandum interni e ripetuto in quei mesi, abbia commesso un crimine.
Intende combattere fino in fondo per salvare il proprio cervello, senza il quale sarebbe rimasto per sempre soltanto il figlio del vecchio e sempre più rimpianto George Bush.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …