Umbero Galimberti: C'è un po' di genio in tutte le menti

22 Agosto 2005
Quando i genitori vanno a parlare con i professori dei loro figli si lasciano dire tutto il male possibile («Suo figlio non studia, disturba, s'impegna poco, è sempre distratto, potrebbe fare di più») purché tutte queste negligenze e inadeguatezze non mettano in discussione l'intelligenza del figlio. E in un certo senso i genitori, a loro insaputa, hanno anche ragione, e i professori fanno bene a non contraddirli. Infatti, quando si parla di una persona non si dovrebbe mai usare l'aggettivo "intelligente" perché la qualità che l'aggettivo vorrebbe designare non esiste. L'intelligente infatti è una moltitudine di forme, la maggior parte delle quali trova nelle nostre scuole, nei centri di diagnosi psicologica e nel giudizio della gente solo la sua mortificazione. è noto, ad esempio, che i superdotati vanno male a scuola, perché il modello di intelligenza che i professori hanno in mente e su cui misurano i rendimenti scolastici è costruito sulla categoria della "flessibilità", che nel caso dell'intelligenza equivale a "mediocrità". Flessibile è infatti quell'intelligenza che, versata in ogni direzione, non presenta una particolare inclinazione per nulla, e perciò è in grado di dispiegarsi a ventaglio su tutto perché nulla la inclina in modo decisivo. Così si stroncano inclinazioni sull'altare della genericità, che non è il nozionismo contro cui si sono fatte in anni passati stupide battaglie, ma la supposizione che l'intelligenza sia una dimensione versatile e versata per qualsiasi contenuto. Non è così! Così come non è da privilegiare, come fa la nostra scuola, l'intelligenza "convergente", che è quella forma di pensiero che non si lascia influenzare dagli spunti dell'immaginazione, ma tende all'univocità della risposta a cui tutte le problematiche vengono ricondotte. Più interessante, anche se meno apprezzata a scuola, è l'intelligenza "divergente" tipica dei creativi, capaci di soluzioni molteplici e originali, perché invece di accontentarsi della soluzione dei problemi, tendono a riorganizzare gli elementi, fino a ribaltare i termini del problema per dar vita a nuove ideazioni. Nei suoi molteplici studi sull'argomento Howard Gardner, i cui libri sono editi da Feltrinelli, mostra che non c'è un'intelligenza generica, quella su cui di solito si applica la misurazione della scuola, ma forme così diverse fra loro che non è possibile unificarle e misurarle in modo uniforme. Ogni forma d'intelligenza, infatti, è percorsa dal "genio", che non è una prerogativa di Leonardo, ma di tutte le menti che sempre sono inclinate in una certa direzione, a partire dalla quale scaturisce per ognuno la sua particolare ed esclusiva visione del mondo. Già a livello biologico si constatano differenze abissali per cui, ad esempio, a due anni c'è chi recepisce una sequenza di musica classica come "armonia" e chi come "dissonanza". Allo stesso modo c'è una "intelligenza linguistica" per la quale le parole non hanno profondità, ma superficialità. Questi non sono giudizi di valore, ma dimensioni geometriche, in base alle quali il profondo ha a che fare con la verticalità e il superficiale con l'orizzontalità. Un'intelligenza linguistica non scopre una parola nella sua radice e nel suo spessore di significato, ma è molto abile nel trasporre un termine o una costruzione da una lingua all'altra. Ciò lascia supporre che chi è padrone di molte lingue ha un'intelligenza che non è turbata dalle differenze antropologiche e dalle differenze di mondo che in Italia hanno generato un linguaggio e in Germania un altro, per cui senza questo carico antropologico e senza questa sensibilità per la differenza dei mondi, può trasporre con maggiore agilità un termine da una lingua all'altra. Per questo Nietzsche poteva dire: «Chi sa le lingue è un imbecille». L'espressione è perentoria e per i professori di lingue può suonare persino offensiva, ma il senso non è recondito. In tanto si può trasporre un termine da una lingua all'altra in quanto non ci si è inabissati nel suo senso e la parola non ci ha fatto prigionieri della sua profondità. C'è una "intelligenza logico-matematica" che sulla terra non vede cose, ma analogie e rapporti: «Il primo uomo - scrive Whitehead - che colse l'analogia esistente tra un gruppo di sette pesci e un gruppo di sette giorni compì un notevole passo avanti nella storia del pensiero». Per questo tipo di intelligenza le cose perdono il loro spessore materiale, il pesce non rimanda al mare e ai naviganti, così come i giorni non rimandano alle opere quotidiane che Esiodo descrive ne Le opere e i giorni. Per l'intelligenza logico-matematica le "cose" diventano "rapporti" e i numeri che li esprimono diventano la "spiegazione" del mondo, nel senso in cui diciamo che qualcosa si "di-spiega", si apre alla leggibilità. Platone ne aveva ben coscienza, per questo sul frontespizio dell'Accademia da lui fondata aveva fatto scrivere: «Non si entra qui se non si è geometri». C'è poi una "intelligenza musicale" che materializza la geometria nel suono. Questa materializzazione instaura l'uomo come colui che ascolta il ritmo di una creazione che lo trascende. La musica non si "dice", si "ascolta", e l'orecchio diventa quel padiglione aperto al mondo per cogliere quella "armonia invisibile" che, al dire di Eraclito, «val più della visibile». Ascoltate da un'intelligenza musicale le parole cessano di avere un senso per guadagnare un suono. Dominante non è più il significato, ma la voce, il suo tono, da cui si desume un senso nascosto del mondo che non si può "dire", ma solo "u-dire". C'è una "intelligenza spaziale" che dispiega un mondo che sfugge alle coordinate geometriche, per offrirsi alle azioni che disegnano quella spazialità visiva, sonora, emotiva che è anteriore alla distinzione dei sensi, perché il valore sensoriale di ogni elemento è determinato dalla sua funzione nell'insieme e varia con questa funzione. Per il navigante, ad esempio, il mare non è uno spazio oggettivo, ma un campo di forze percorso da linee di forza (le correnti) e articolato in settori (le rotte) che lo sollecitano a certi movimenti e lo sostengono quasi a sua insaputa. La terra che intravede, le correnti che sente, le onde che taglia non gli sono presenti come un dato oggettivo, ma come il termine delle sue intenzioni e delle sue azioni. Nella burrasca non percepisce cose, ma fisionomie: fisionomie familiari come la terra che a distanza si profila, e fisionomie ostili come le onde nella cui altezza scorge non tanto una dimensione quanto una minaccia. Se nello sguardo il navigante è magicamente congiunto alla meta, è nella forza e nell'azione dei suoi gesti la possibilità di pervenirvi. Qui la sua intelligenza è tutta raccolta nella dialettica corporea tra l'ambiente e l'azione. C'è poi una "intelligenza corporea" che guarda il mondo non per scoprirlo, ma per abitarlo. Abitare non è conoscere, è sentirsi a casa, ospitati da uno spazio che non ci ignora, tra cose che dicono il nostro vissuto, tra volti che non c'è bisogno di riconoscere perché nel loro sguardo ci sono le tracce dell'ultimo congedo. Abitare è sapere dove deporre l'abito, dove sedere alla mensa, dove incontrare l'altro. Abitare è trasfigurare le cose, è caricarle di sensi che trascendono la loro pura oggettività, è sottrarle all'anonimia che le trattiene nella loro inseità, per restituirle ai nostri gesti abituali, che consentono al nostro corpo di sentirsi tra le "sue cose", presso di sé. Frequentando il mondo, l'intelligenza corporea non è mai percorsa dal sospetto che la sua percezione possa essere un'illusione rispetto a qualche presunta verità in sé, perché, proprio confrontandole con le percezioni, ha imparato a riconoscere le illusioni che sono sempre ospitate dal silenzio del mondo, da una risposta mancata. C'è infine una "intelligenza psicologica" per la quale il mondo è uno specchio di sé. Proiettando i propri vissuti, gli uomini hanno incominciato a catalogare la natura secondo i miti dell'anima. Ne è nato un mondo immaginario di cui i poeti e i mistici sono i gelosi custodi. A loro si deve la nobiltà delle nostre passioni. In forma mitologica hanno saputo affidare al cielo quanto noi oggi in forma patologica affidiamo alla psichiatria. Perché gli uomini non vivono più all'altezza delle loro passioni? Perché nei loro desideri non scorgono più un'intelligenza? Perché, dopo averle private della loro intrinseca intenzionalità, si è assegnato alle nostre passioni solo lo spazio opaco e buio dei nostri corpi? Che ha fatto la ragione di noi? Dove ci porta l'itinerario dell'intelligenza scientifico-tecnica divenuta egemone? Non perdiamo così e per sempre le tracce del cammino percorso? Agli uomini della scuola l'invito a non demolire quelle diverse forme di intelligenza in cui è custodito un potenziale di umanità diversa da quella oggi compiutamente dispiegata sotto il segno della tecnica. Contro la tecnica non abbiamo nulla da obiettare se non la sua funzione egemone e totalizzante, che lascia perire ai suo margini tutto quel volume di senso che, non essendo tecnicamente fruibile, è lasciato essere come parola inincidente, puro rumore che non fa storia. Ma per questo è necessario che la scuola si declini "al plurale" e insegua, attraverso un'articolazione totale, tutte quelle forme di intelligenza in cui sono custodite quelle possibilità che, in un mondo sempre più strutturato in modo funzionale, diventano gli unici ricettacoli del senso. Un senso trovato in sé, nella forma della "propria" intelligenza.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …

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