Umberto Galimberti: I tristi prigionieri di lifting e diete

22 Agosto 2005
Siamo soliti curare i nostri disagi psichici e non invece le "idee malate" con cui visualizziamo noi stessi e gli aspetti della nostra vita. Un lavoro, questo, che forse i filosofi sanno fare meglio degli psicologi, se è vero che la filosofia è un continuo correttivo di idee stantie, divenute egemoni per forza d'abitudine, per eccesso di pratica e di condivisione, in fondo per la pigrizia del pensiero che genera falsi miti, neppure avvertiti come tali, e quindi in grado di diffondere i loro effetti nefasti senza trovare la minima resistenza. Con questa serie di interventi vorremmo smascherarne alcuni a partire dal "mito della giovinezza", un'idea malsana che contrae la nostra vita in quel breve arco in cui siamo biologicamente forti ed economicamente produttivi, gettando nell'insignificanza e nella tristezza tutti quegli anni, e sono i più, che seguono questa età felice, la quale, una volta assunta come paradigma della vita, declina nella forma della mesta sopravvivenza tutto il tempo che ancora ci resta da vivere. A sostegno del mito della giovinezza ci sono due idee malate che regolano la cultura occidentale, rendendo l'età avanzata più spaventosa di quello che è: il primato del fattore biologico e del fattore economico che, gettando sullo sfondo tutti gli altri valori, connettono la vecchiaia all'inutilità, e l'inutilità all'attesa della morte. Quando chiamiamo "malata" questa visione del mondo che mette al primo posto biologia ed economia non vogliamo negare che i vecchi non vadano incontro a processi degenerativi, né che la loro vita appaia inutile se misurata sul criterio dell'efficientismo che regola la cultura dell'Occidente, semplicemente vorremmo spostare questi tratti dal primo piano sullo sfondo e riordinare la scala delle priorità. Perché, se è vero che la vecchiaia è un'afflizione, ci piacerebbe sapere se questa afflizione non è generata o almeno incrementata dall'idea che la nostra cultura si è fatta della vecchiaia, come di un tempo inutile che ha nella morte il suo fine, in attesa del quale, grazie alla medicina e ai servizi sociali, sopravvive tutta quella schiera di mummie animate, paradossi sospesi in una zona crepuscolare. A che servono? Che scopo hanno? A queste domande una prima risposta la dà Platone ne la Repubblica, dove Socrate, rivolgendosi al vecchio Cefalo, chiede: «Da te ascolterei volentieri un giudizio sulla vecchiaia: se davvero essa è un periodo triste della vita, o se qualche altra cosa tu abbia da dirci». Cefalo inizia a far le lagnanze della vecchiaia, quelle lagnanze che nascono dal ricordo della giovinezza. Pessima prospettiva perché, così visualizzata, la vecchiaia non può apparire che come causa di tutti i mali. Cefalo ne fa l'elenco che però non convince Socrate: «Mio caro Cefalo, di tutti questi mali c'è sì un'unica causa, ma essa non è la vecchiaia, bensì il carattere dell'individuo». Cosa ci insegna questa storia? Che si può benissimo disfare la connessione vecchiaia-morte per ricostruire, come fa Hillman ne La forza del carattere (Adelphi), l'antica connessione vecchiaia e svelamento del carattere, che nella vecchiaia appare nella sua unicità, facendoci finalmente conoscere quel che davvero in fondo siamo nella nostra specifica tipicità. «Invecchiando - scrive Hillman - io rivelo il mio carattere, non la mia morte», dove per carattere devo pensare ciò che ha plasmato la mia faccia, che si chiama "faccia" perché la "faccio" proprio io, con le abitudini contratte nella vita, le amicizie che ho frequentato, la peculiarità che mi sono dato, le ambizioni che ho inseguito, gli amori che ho incontrato e che ho sognato, i figli che ho generato. «Onora la faccia del vecchio» è scritto nel Levitico (19,32) perché la faccia è il primo segno da cui prende le mosse l'etica di una società. è infatti un dovere del cittadino rendere pubblica la propria faccia, e non nasconderla come oggi consentono gli interventi chirurgici o gli artifici della cosmesi. Non è da poco infatti il danno che si produce quando le facce che invecchiano hanno scarsa visibilità, quando esposte alla pubblica vista sono soltanto facce depilate, truccate e rese telegeniche per garantire un prodotto, sia esso mercantile e politico, perché anche la politica oggi vuole la sua telegenia. La faccia del vecchio è un atto di verità, mentre la maschera dietro cui si nasconde un volto, trattato con la chirurgia, non con la cosmesi, è una falsificazione che lascia trasparire l'insicurezza di chi non ha il coraggio di esporsi alla vista con la propria faccia. Nel suo disperato tentativo di opporsi all'intelligenza della natura, che vuole l'inesorabile declino degli individui, chi non accetta la vecchiaia è costretto a stare continuamente all'erta per cogliere di giorno in giorno il minimo segno di declino. Ipocondria, ossessività, ansia e depressione diventano le malefiche compagne di viaggio dei suoi giorni, mentre suoi feticci diventano la bilancia, la dieta, la palestra, la profumeria, lo specchio. Se la vecchiaia non mostra più la sua vulnerabilità, dove reperire le ragioni della pietas, l'esigenza di sincerità, la richiesta di risposte sulle quali poggia la coesione sociale? La faccia del vecchio è un bene per il gruppo, e soltanto a Dio, ma questo perché è solo, è concesso di nascondere il suo volto. Scrive Hillman che, per il bene dell'umanità, «bisognerebbe proibire la chirurgia cosmetica e considerare il lifting un crimine contro l'umanità» perché, oltre a privare il gruppo della faccia del vecchio, finisce per dar corda a quel mito della giovinezza che visualizza la vecchiaia come anticamera della morte. Ora, che si muore lo può dire la logica, la metafisica, la teologia, ma non lo può dire mai la nostra psiche, perché, ce lo ricorda Freud in Noi e la morte, la morte è inattingibile al nostro vissuto psichico, e prendere a prestito dalle metafisiche e dalle teologie della morte una nozione che la nostra psiche non riesce a sperimentare significa contorcere la nostra psiche e costringerla a pensare e a vivere il nulla di cui è assolutamente incapace. Finché consideriamo ogni ruga, ogni capello che cade o incanutisce, ogni tremito, ogni macchiolina epatica sulla pelle, ogni nome dimenticato esclusivamente come indizio di declino, affliggiamo la nostra mente tanto quanto la sta affliggendo la vecchiaia. Il ripetersi spesso, ogni volta che vediamo la nostra faccia allo specchio, di questa diagnosi negativa su quanto ci sta accadendo dimostra la potenza dell'idea alla quale abbiamo legato e imbrigliato l'ultima parte della vita. E allora il lifting facciamolo non alla nostra faccia, ma alle nostre idee e scopriremo che tante idee che in noi sono maturate guardando ogni giorno in televisione lo spettacolo della bellezza, della giovinezza, della sessualità e della perfezione corporea, in realtà servono per nascondere a noi stessi e agli altri la qualità della nostra personalità, a cui magari per tutta la vita non abbiamo prestato la minima attenzione, perché sin da quando siamo nati ci hanno insegnato che apparire è più importante che essere, con il risultato di rischiare di morire sconosciuti a noi stessi e agli altri. Si dirà, va bene il carattere e la personalità, ma l'amore, che sempre Freud indica come antitesi alla morte? Che ne è dell'amore per il vecchio che, misconosciuto come soggetto erotico, può affidarsi malinconicamente solo alla memoria, al ricordo e al rimpianto? A correggere questa idea è Manlio Sgalambro che, nel Trattato dell'età (Adelphi), non cerca ripari, non si rifugia nella "giovinezza interiore" che a suo parere è un luogo notoriamente malfamato, ma si rivolge alla "sacra carne del vecchio" che contrappone a quella del giovane, mera res extensa buona per la riproduzione. L'eros scaturisce da ciò che sei, amico, non dalle fattezze del tuo corpo, scaturisce dalla tua età che, non avendo più scopi, può capire finalmente cos'è l'amore fine a se stesso. Una sessualità totale succede alla sessualità genitale. Non più la "rebellio membri genitalis", il vile amore notturno, il fugace abbraccio, ma il trasalimento che, come un'onda inesorabile che ritorna instancabile sulla stessa riva, è un tributo all'incarnazione senza riproduzione, perché, scrive Sgalambro: «La specie non è niente, alcuni uomini sono tutto». Questi favori, che anche a parere di Orazio «La natura negò ai giovani», consentono all'amore di raggiungere a sua volta il proprio apice che non è nella riproduzione a cui è legato l'animale di ogni specie, e neppure nel piacere troppo omogeneo e compatto nella giovinezza della carne. L'apice dell'amore è nella conoscenza del tempo, non del tempo passato che si avvinghia a quello futuro, ma di quel tempo dei tempi dove l'amore e la morte, che in ogni orgasmo tutti sentono in qualche modo imparentati, trovano il loro modo ineffabile di abbracciarsi finalmente senza maschere e fraintendimenti. Qui si annida il segreto dell'età, dove lo spirito della vita guizza dentro come una folgore, lasciando muta la giovinezza, incapace di capire. Forse il carattere e l'amore hanno bisogno di quegli anni in più che la lunga durata della vita oggi ci concede per vedere quello che le generazioni che ci hanno preceduto, fatte alcune eccezioni, non hanno potuto vedere, e precisamente quello che uno è al di là di quello che fa, al di là di quello che tenta di apparire, al di là di quei contatti d'amore che la giovinezza brucia, senza conoscere.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …