Vittorio Zucconi: New Orleans. La battaglia del presidente

05 Settembre 2005
Quello che l’America non vedeva più da 150 anni e non credeva avrebbe mai più visto nella propria storia, è da ieri cronaca: il governo federale e le forze armate americane sono partite alla conquista di una città americana. Non Berlino, non Bagdad, non Saigon, ma New Orleans. La battaglia per riconquistare New Orleans è in corso, proclamata dal Comandante in capo, da un Bush infine atterrato al fronte, che ha giurato ‟di riprendere il controllo” della città, per riprendere il controllo politico d’una nazione sbigottita che gli sta sfuggendo.
La riconquista di New Orleans, la terza "battaglia" nella storia americana attorno a questa città che sconfisse gli Inglesi nel 1815 e nel 1862 fu assediata e domata dalle cannoniere del Nord, non sarà uno scontro militare, né un crematorio di vite come l’Iraq. Le bande di desesperados e di gangster armati che oggi sparano ai convogli dei soccorsi e a chiunque osi entrare senza scorta, non potranno certamente opporsi agli stormi di elicotteri, alle colonne di jeep Humvee e di camion che stanno lentamente forzando la via verso la città e le migliaia di profughi intrappolati tra l’acqua e il fuoco. Se si sta, per una volta letteralmente, "sparando sulla Croce Rossa", in uno di quegli spasmi d’autodistruzione che travolgono e condannano i miserabili della Terra, è perché l’uragano ha scoperchiato la rabbia, il senso di abbandono e soprattutto di non appartenenza sociale e civile all’America bianca e prospera, che cova nel ventre di tutte le metropoli, e in questa particolarmente. è il cuore di tenebra che già incendiò le città del ‘68, dopo l’assassinio di Luther King, o i ghetti di East Los Angeles dopo l’assoluzione dei poliziotti bianchi che avevano pestato il nero Rodney King.
Ma la New Orleans con la rabbia alla gola che oggi incendia, spara, scambia duelli da "mezzogiorno di fuoco" con i soccorritori nell’orgia di troppe armi che da queste parti circolano, la città dove, in una notizia che sembra incredibile se non venisse da fonti ufficiali, il 50 per cento della forza di polizia ha disertato e si è squagliata prima dell’uragano, non è un ghetto acceso da un’angheria giudiziaria o dalla calura estiva. È una intera città, sommersa, stravolta, esasperata dall’osceno ritardo da città Haitiana o Somala nell’arrivo dei soccorsi che soltanto ieri, sei giorni dopo la doppia mazzata del ciclone e poi del cedimento delle dighe, hanno cominciato ad arrivare. Non si ha neppure un’ipotesi di bilancio sul numero di morti, dopo le ‟migliaia” previste dal sindaco. Ci sono quartieri e zone oltre la città, nei bayou degli acquitrini, dove nessuno è ancora arrivato nei villaggi e non arrivano notizie. C’è una sola cifra certa, venuta dal "Charity Hospital" dove i 26 pazienti dell’unità coronarica furono trasportati sul tetto dai medici e dagli infermieri lunedì scorso, per sfuggire all’acqua che aveva fulminato anche i generatori. Sul tetto, al buio, in attesa vana di elicotteri militari o civili per tre giorni, nella nazione più ricca del mondo, otto sono morti, senza che il personale potesse fare nulla per loro. Perdere una città intera è una sconfitta che nessun Presidente può incassare senza pagare un prezzo terribile e anche Bush, dopo essere andato in ‟tilt” come sempre gli accade nelle prime ore dopo uno scossone estremo e come gli accadde anche dopo l’11 settembre, lo ha capito, o glielo hanno fatto capire.
I sondaggi post uragano segnalano che la fiducia della nazione in lui, già cedente, sta sprofondando. I grandi quotidiani come il ‟New York Times”, il ‟Los Angeles Times” e il più cauto ‟Washington Post” gli rivolgono la stessa accusa che perseguita la sua presidenza dal primo giorno: l’accusa d’"incompetenza" e, ancora più micidiale per lui di scarsa leadership. Per questo si è visto ieri, nel breve tour in punta di piedi, un Bush che si sbracciava per esprimere ottimismo, per manifestare ‟insoddisfazione” verso la risposta pubblica, come se il governo americano non fosse parte della risposta pubblica, per negare che il buco nero dell’Iraq stia divorando risorse e soprattutto attenzione, in un governo prigioniero della sua stessa guerra e della fissazione irachena. ‟Là combattiamo il terrore, qui combattiamo il disastro”, rispondeva Bush. Ma New Orleans non è la invisibile Bagdad, dalla quale ci arrivano soltanto lampi di bugie ufficiali o di proclami terroristici. "The Big Easy" è in casa, sotto occhi dei telespettatori che vedono le case bruciare, le vie sprofondare, le donne che raccontano di stupri nelle notti senza luce e senza polizia, i convogli militari che arrancano sulla unica autostrada aperta, la 110, i cadaveri abbandonati come cani sui sovrappassi e sui tronconi di ponti. Non ci sono alibi ideologici, trucchi dialettici, formule neocon o teocon che possano alzare cortine fumogene, quando persino gli inviati della tv più sintonizzata sulla linea Bush, la Fox, raccontano con coraggio il naufragio della città. Il "settimo cavalleria" che sta marciando alla riconquista di New Orleans riprenderà sicuramente il controllo di quello che rimane di una città in rovine, da ricostruire come il prestigio e la credibilità di Bush non più davanti a un mondo ostile, ma di fronte alla stessa gente che lo aveva eletto.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

La cattura

La cattura

di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia