Vittorio Zucconi: Le macerie, il fango di New Orleans e il tracollo di Bush

12 Settembre 2005
Nel quarto anniversario d´una mattina che non dovrà mai essere dimenticata, il favore popolare per George Bush crolla al 39%, ormai un plebiscito alla rovescia. Se nelle giornate del 2001 in molti ci sentimmo "tutti americani", quattro anni dopo neppure gli americani stessi sembrano sentirsi più "tutti americani". La strategia del dividere per vincere, il ricorso sempre più esasperato alla polarizzazione fra "noi e loro", fra buoni e cattivi, che era servita a Bush per vincere la battaglia elettorale, sta perdendo la pace dopo il duello. La tendenza alla perdita di credibilità e di fiducia è troppo costante per essere l´effetto di un singolo elemento, sia esso la guerra in Iraq, la indifferenza alla povertà che cresce e alla stagnazione dei redditi reali, il costo dei carburanti o il disastro del ciclone Katrina. Quando Bush si arrampicò sulle rovine di Manhattan, nove giorni dopo lo stupro del World Trade Center, i meccanismi della solidarietà patriottica, il senso di indignazione e di insulto nazionale fecero dimenticare a tutti, meno che ai faziosi più ciechi, i dubbi e le animosità contro il Presidente. Più dell´80% degli americani si pronunciarono per lui e con lui. Oggi, più della metà gli ha voltato le spalle.
Per spiegare una caduta che riporta una Casa Bianca a Nixon e Carter e comincia ad angustiare anche l´ala moderata della destra in vista delle politiche 2006, si deve tornare a quella smagliante e lancinante mattina di settembre del 2001. Nell´ora di uno sgomento che nessun abitante degli Stati Uniti aveva mai provato nè immagazzinato nella propria memoria storica, la promessa del Presidente fu chiara e necessaria. Io vi proteggerò e farò giustizia e nessuno meglio di me, non i democratici farfuglioni e certamente non l´Onu impotente potrà farlo meglio me. Era, scritto coi morti di New York, di Washington, della Pennsylvania, un contratto di sangue con gli americani.
Quattro anni più tardi, il contratto è stato non soltanto inevaso, ma tradito. È stato tradito in quell´Iraq dove il governo americano, sedotto dalle sirene di dottrine e ideologie contrarie alla sua natura di prudente conservatore isolazionista ha preteso di identificare il terrorismo con Saddam, forzando gli scarni elementi di prova quando non addirittura fabbricandoli.
Avere identificato il "regime change" il rovesciamento di Saddam con la guerra al jihadismo globale, oltre che essere una sfacciata forzatura dimenticava che anche il contrario sarebbe diventato vero, che ogni sconfitta nel dopoguerra sarebbe stata vista come una vittoria di un terrorismo che continua a godere della tragica legge dei violenti: a loro basta esistere per vincere.
Duemila americani uccisi più tardi, che sono due terzi degli americani uccisi l´11 settembre, l´equazione forzata tra Saddam e il terrorismo resta irrisolta. E la prevista impazienza dell´opinione pubblica americana cresce.
La "guerra al terrore" è già durata più a lungo della Seconda Guerra Mondiale e non ci sono rese in vista.
La spallata dell´uragano Katrina, che ha scatenato un ping pong umiliante per l´intera nazione, nel reciproco sciacallagio del "blame game", lo scambio di accuse fra poteri locali, statali e federali, ha incrinato l´altro pilastro fondamentale del "contratto con l´America", la promessa di proteggerla. Nella tragedia di New Orleans, l´America intera si è scoperta indifesa, impreparata, orfana di fronte all´imprevisto. Ai milioni di cittadini che hanno visto se stessi in quelle folle di "boat people" metropolitana, importa poco sapere se il sindaco di New Orleans, il direttore della protezione civile già di fatto licenziato, il senatore dello Stato o il presidente siano da blame, da biasimare. Quando milioni di persone si sentono vulnerabili e umiliate davanti al mondo che vorrebbero dominare, come si sentirono la mattina dell´11 settembre è colui che si è eretto a Lord Protettore della famiglia americana a subire il contraccolpo. Un presidente americano, non lo si ripeterà mai abbastanza, è l´incarnazione pontificale e totemica, per quattro anni, dello spirito del tempo e della nazione.
Di fronte al collasso della propria popolarità, e agli scricchiolii che si avvertono nella propria coalizione elettorale, Bush è apparso stranamente svogliato, quasi disinteressato. Ha rievocato quei dubbi sulla propria statura che lo avevano accompagnato prima della aggressione a New York. A ormai 15 giorni da Katrina, non ha ancora trovato la voce, la forza, la credibilità che lo avevano innalzato sopra le macerie. A tratti Bush appare come un uomo esausto, non fisicamente, ma politicamente, come chi abbia esaurito tutte le risorse che lo avevano sorretto attraverso lo shock della guerra subita e poi inflitta e ora senta che le vecchie tattiche non funzionano più. I riflessi condizionati che il suo stratega Rove cerca di far scattare nei fedeli, esattamente come scatta il riflesso antiBush in chi lo detesta, non sono più così immediati e sicuri. La polarizzazione, la formula vincente del "noi contro loro", del soli contro tutti tanto utilizzata da questa maggioranza di destra che riusciva a dipingersi come minoranza di giusti in una marea di iniqui, funziona al contrario, irrobustendo il fronte dei «loro» mentre il fronte dei ‟noi” si arrocca e si assottiglia.
Il "contratto con l´America" è lettera morta. Anche chi aveva concesso a Bush i benefici del dubbio ora chiede che mostri almeno un "piano", un progetto, una via di uscita, qualcosa che guidi le mosse militari in Iraq e che giustifichi i 18 miliardi spesi per proteggere in casa una nazione che ha rivelato la propria impreparazione e per di più ha denudato davanti al mondo il fondo buio della propria costante miseria urbana. Non siamo a fine legislatura o mandato. Questo presidente ha ancora più di tre anni di governo davanti a sé. E nessuno, non l´America, non l´Europa, può permettersi, in un mondo nel quale la nostra vulnerabilità cresce con l´aumentare della sofisticazione tecnologica, con le incertezze sul futuro del clima e con la alluvione inarrestabile della globalizzazione umana, un leader americano che viva di retorica, di slogan rancidi, di manicheismo e di vacanze sempre troppo lunghe.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …