Michele Serra: La Luna che non incanta più

26 Settembre 2005
Trentasei anni dopo lo sbarco del primo uomo sul suolo color del neon del nostro satellite, l’annuncio americano di una prossima riconquista della Luna (nel 2019) è subito scivolato via. Come una pratica polverosa riemersa da un vecchio cumulo di pendenze da sbrigare, le troppe pendenze in corso.
Nella nostra percezione di ciò che chiamiamo "progresso" molto dev’essere cambiato, e non in meglio, se riserviamo una così minima emozione alla prospettiva di tornare lassù, dove la nostra specie si arrampicò quasi incredula. come se acciuffasse con la mano il filo di un traguardo sbalorditivo, fin lì solo sognato. Il bipede africano dalla fronte convessa e dalle mani abili aveva impiegato circa cinquantamila anni per conquistare a piedi, e su barche di tronchi, tutti i continenti, palmo a palmo, per poi salire nel cosmo su macchine volanti e fare suo anche il corpo celeste più prossimo, quasi un settimo continente, un’Antartide supplementare sul quale piantare una bandiera, fare carotaggi, saggiare il suolo morto e mai vissuto di quel cumulo sferico di sassi. Ma ne sono bastati trentasei, di anni, per dimenticare quel giorno clamoroso, la sua gloria tecnologica, la sua epica cosmica.
Nell’enciclopedia che tengo sul tavolo, il conquistatore della Luna Neil Armstrong conta la metà delle righe dell’altro Armstrong famoso, il trombettista Satchmo. Bisognerebbe forse raccontare ai ragazzi, noi che eravamo ragazzi allora (21 luglio 1969), quanto fosse intatta, allora, la stupefazione a proposito di noi stessi, delle nostre possibilità, dei nostri progetti, delle nostre speranze. La televisione in bianco e nero portò casa per casa il riverbero di quei primi passi umani nell’universo. Nessuno dormì, lungo i fusi orari della Terra, scossa da una febbre eccitata e piena di ammirazione per l’America dell’ottimismo tecnologico. E tutti ricordano dov’erano, e con chi, quando Neil Armstrong impresse l’orma umana su quella smisurata spiaggia siderale. Erano ancora in piedi - già ammaccati, ma in piedi - tutti i principali miti dell’uomo moderno. Da quella della Tecnica, fertile madre del progresso, a quello della Pace, custode del futuro umano dopo lo sconquasso orrendo della guerra di Hitler. Da quello della Classe operaia, ultimo attore di un lungo processo di liberazione, a quello della Democrazia americana, giustiziera del nazismo e fabbrica di sempre nuove frontiere. E - soprattutto - era ben vivo il mito della Storia, che percepivamo tutti come un percorso quasi inevitabile verso il meglio, non come quel labirinto cieco e ansiogeno che oggi ci appare. C’erano appena stati Kennedy, Kruscev e Papa Giovanni, la trinità che incarnava davanti allo sguardo popolare la buona volontà del potere, illusione generica e ingenua, ma affratellante. Il Concilio Vaticano II aveva schiuso al mondo i pesanti portoni della Chiesa (poi rinserrati in tutta fretta), trasformando il dogma in una parentesi troppo circoscritta per contenere l’amore evangelico. E proprio alla Luna, sospesa sopra San Pietro, Giovanni si ispirò per il suo discorso più celebre, più semplice e più rimpianto. Kruscev, un contadino intelligente e impulsivo diventato capo dell’altra metà del mondo, aveva provato a scuotere le fondamenta plumbee e segrete del comunismo staliniano, per una breve stagione di verità presto inghiottita da una truce e ipocrita ragion di Stato. Kennedy, sotto il muro di Berlino, poteva parlare di libertà senza che le sue parole suonassero incongrue perfino ai nemici, perché l’America era sì quella del Vietnam, ma era anche quella del secondo New Deal democratico, della lotta per i diritti civili, delle lunghe strade aperte da cavalcare sfrenatamente liberi, come nei car-movie che noi ragazzi divoravamo con gli occhi. Ma ci ingannammo.
L’allunaggio, ripensandolo oggi, non fu un inizio, come ci parve (e come parve a Stanley Kubrik, che nel 1968 datò nel 2001, pensate che fede, l’arrivo dello scimmione uomo fino alle colonne d’Ercole della galassia). Fu invece, l’allunaggio, una fine, l’evento conclusivo di una lunga stagione di speranze e di movimento, dal Dopoguerra ai Sessanta. La conquista dello spazio, che da Gagarin fino a Armstrong aveva unito l’umanità nella grande illusione di un progresso senza fine, dismise presto la sua veste di avventura esaltante e lasciò il posto a una faticosa e spesso mal finanziata routine, disseminata di incidenti, di ripensamenti. "Nasa" divenne quasi sinonimo di parastato e di bilanci in rosso, e le basi spaziali sovietiche abbandonate raccontavano addirittura di un ex-Stato, sgretolatosi da solo come una casa fatta con cattiva malta. Lo Shuttle dalla carlinga cagionevole conquistava le prime pagine solo quando era schiantato dalla disgrazia, e gli astronauti, un tempo eroi prometeici, sembravano gli scienziati-travet di missioni a corto raggio. Qualche palpito di emozione venne resuscitato dal robot sparato su Marte, ma il clima era cambiato, le aspettative sopite. Non era l’astronautica ad avere veramente abbassato il tiro, adeguandolo ai budget ridotti: eravamo noi ad avere cambiato radicalmente sguardo.
Lo slancio ottimistico di quarant’anni fa, che inquadrava la crisi di Cuba o il Vietnam o l’assassinio di Kennedy come offese gravi ma rimediabili a un percorso di pace e di progresso, non è più lo stesso, pesantemente offuscato da nugoli di nuove guerre, attentati atroci, fondamentalismi e superstizioni nel Novecento considerati arcaici che si rivelano, invece, tra i fermenti decisivi del nuovo millennio. Chi avrebbe detto, quarant’anni fa, che le intolleranze confessionali avrebbero dettato l’agenda del mondo? Lo sguardo che gli uomini di allora volgevano al cielo nelle notti d’estate, cercando ammirati l’esile scia degli Sputnik e di altri botoli orbitanti, ha perso innocenza e slancio. Oggi le tracce celesti sono solo il traffico di ripetitori televisivi e telefonici, neppure lo guardiamo, il cielo sopra di noi ha lo stesso fascino ordinario di un contatore della luce. La riconquista della Luna parte senza spettatori: dovrà riconquistare il suo pubblico come un programma già in crisi di audience dopo una sola puntata.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …