Vittorio Zucconi: La rivolta delle città a colori

26 Settembre 2005
Nella chiazza sul marciapiedi di un lampione stradale, il ragazzo delle bombe racconta. ‟Il buio era totale, nella notte dentro la galleria e il raggio improvviso della torcia elettrica ci accecò come fosse stato il sole, polizia! Polizia! Cristo, un casino di megafoni e di passi sulla ghiaia che correvano verso di me”. Il ragazzo esagera e le ragazze attorno a lui lo sanno, ma sgranano gli occhi rabbrividendo di paure finte che diventano voglie vere. Man, che coraggio che hai, che palle, che uomo, perché si possono avere tutti gli anellini di acciaio che vuoi infilati dappertutto ma le ragazze devono giocare alle femmine e i ragazzi a fare i maschi, nel mondo delle "bombe", dell’amore scritto sui muri, della vita spruzzata sui ruderi di metropolis e delle grida dipinte sulle carrozze dei treni, in questo oltretomba metropolitano di ombre che vivono soltanto nelle immagini che si lasciano dietro.
Il mondo parallelo dei "graffiti", delle bombs come le chiamano loro. Le studiano, le inseguono e le catalogano da 30 anni, da quando cominciarono a muoversi a New York e a Philadelphia, queste mani che esplodono di colori e di barocco industriale ormai tutte le città del mondo, con una furia creativa che offende, deturpa, vandalizza, racconta e, soprattutto, sbalordisce. Facoltà e antropologi, critici d’arte e sociologi, sindaci e commissari di polizia, che nella loro dignitosa gioventù osarono al massimo una parolaccia incisa su un banco di scuola o un cuore trafitto sulla corteccia di un albero, compilano saggi e ricerche per decrittare i segnali che la street art, l’arte da strada lancia e che tutti si possono riassumere in una spiegazione di due parole sole: ‟Io esisto”. Bombardo di spray, di vernice acrilica, di gessi la città, sfuggo alle polizie, sono più forte di ogni lavaggio, più indelebile del sole. Graffio dunque esisto.

Dentro la subway
Non furono naturalmente i punk, i vandali, gli artisti da strada della East Coast americana, della Subway di New York o delle rovine di Philadelphia a inventare il graffito. Ogni enciclopedia economica ci ricorderà che graffiare le pareti di una grotta con qualche esile silhouette di cavallo, imbrattare i muri di Pompei con parolacce, scolpire le direzioni per raggiungere il bordello più vicino, compreso il prezzo delle prestazioni, come nella antica Efeso, predatano di qualche anno gli affreschi di Daze, di Reas, di Shepard Fairey, di Banksy o di Mike De Feo il "fioraio" , che copriva le piaghe di New York dipingendo ovunque e soltanto fiori dove non sarebbero mai potuti sbocciare. Ma se lasciare un’impronta di se stessi sugli intonaci della storia è istinto non diverso dalla pisciatina del cane che marca il territorio, e le città europee portarono per anni la scritta ancora oggi indecifrabile dei soldati americani di passaggio, "Kilroy was here", Kilroy è passato di qui, nulla di spontaneo e di gratuito raggiunse mai le composizioni, i polittici, le Sistine rotabili che da tre decenni deturpano le bellezze e abbelliscono le turpidini delle città moderne. Nessuna metropoli è rimasta inviolata. Nessuna cultura o presunta "identità" nazionale o politica ha resistito alla pandemia della bomboletta impugnata, nella enorme maggioranza dei casi, da teenager e, come stabilì la polizia di Londra dopo uno studio durato tre anni per scoprire l’acqua calda, che il 99,1 per cento degli "scrittori di bombe" erano maschi. Dopo New York e Philadelphia, caddero Toronto e Montreal e Vancouver. In Canada mirarono a quei convogli ferroviari, soprattutto merci, che attraversano lenti e infiniti l’immensità continentale dal Pacifico all’Atlantico, facendo per divertimento quello che i migranti della Grande Depressione anni ‘30 facevano per necessità, quando scrivevano a gesso sui vagoni messaggi e saluti ad altri migranti, come lettere in bottiglia. Dal Nord America all’Europa, furono le due Germanie, i teenager dell’ovest annientati dal benessere o quelli dell’est appiattiti dalla stoltificazione del regime a raccogliere la bombola. Gli affreschi sui due lati del Muro di Berlino perduto nel 1989 erano arrivati a tali forme di espressione politica che Honecker, l’ultimo presidente vero della Ddr, arrivò a vietare la vendita di vernici spray. Neppure il Giappone del confucianesmo, della società piramidale e tribale, dei coretti operai "cresci azienda cresci" poté resistere. Tokyo, Osaka, Nagoya, sposarono la turgida, implicitamente (e quasi mai esplicitamente) oscena grafica dei grandi caratteri carnosi e tridimensionali americani con la immediatezza espressiva dei manga, dei suo cartoni. I graffiti surreali e tridimensionali di Masamura Shoro, che si firma Corail, perché il nickname, il nome d’arte, è indispensabile, popolano l’ordinatissimo metrò di Tokyo come incubi alla Dalì o come giganteschi bambini che divorano budella di non identificate vittime. In Italia, in Spagna, in Francia, poi, nella Russia del dopo Socialismo Reale, in Bulgaria, in Africa, in Argentina, in Brasile, ovunque le mani delle ombre graffiano le città con la propria firma, con la sigla del proprio "crew", del proprio gruppo, o banda, di street artists, in una pandemia che i vecchi, gli ex graffitari passati al mondo dell’editoria, della grafica, della pubblicità, della moda, o semplicemente risucchiati dall’anonimato della vita disapprovano. Soprattutto da quando Internet, illustrando tutto a tutti nel mondo, tende ad omogeneizzare gli stili e rendere riproducibili opere di arte povera che sembravano, per la loro natura, irriproducibili.

I distruttori costruttivi
Gli accademici, quelli che studiano e catalogano, li chiamano "distruttori costruttivi", perché l’accademia e la saggistica adorano i calembours sapienti e le etichettine colte, ma la sola spiegazione coerente che torna sempre quando il mondo dei passeggeri cerca di capire perché debba viaggiare dentro carrozze trasformate in pantografie su ruote è la "Ricerca di identità", il nuovo stereotipo di moda per spiegare tutto, dai graffitari ai terroristi, di identità maschile. Ma nessuna formula riesce a spiegare il formidabile talento artistico e creativo che molti graffiti raggiungono, sfiorando i livelli da murales di Siqueiros e la ironia linguistica (ricordare sempre che loro si fanno chiamare "writers", scrittori, e non "painters", pittori) di gente come Pisa 73, il tedesco che lavora con gli stencil, i cartoni ritagliati e ha coperto la Germania di graziose bambine che mostrano il sedere a chi guarda e di un George Bush con tre dita alzate, due in segno di vittoria e la terza in un segno meno gentile. Ai confini tra Messico e Usa, murales con Cristi sanguinanti e Madonne dolenti colorano Phoenix, El Paso, San Diego, i passi della "Frontera del Norte" dove migliaia di "schiene bagnate" come chiamano i clandestini, lasciano la vita per inseguire i due dollari all’ora pagati ai braccianti per la raccolta di carciofi e pomodori. Sono la cattedrale all’aperto di un calvario senza evangelisti. Nelle grandi città, l’esplosione della "ghetto music", del raggae, dello hip hop, del gansta-rap, muove la mano di pittori neri, che affiancano i loro affreschi brutali e violentemente maschilisti, come la loro musica, al classico e politicamente corretto presepe di Martin Luther King, Malcolm X e lo schiavo che spezza le catene. Pochissime, forse soltanto a Londra, sono ancora le autorità e le polizie che tentano di reprimere e di punire atti che restano, dietro tutta la loro espressività, tecnicamente vandalismo. E l’accettazione rassegnata della street art, anche quando è soltanto scarabocchio e furia imbratta-muri, rischia di togliere, come Internet, mistica e piacere al "graffito". Senza la polizia che irrompe nella galleria buia mentre si spruzzano carrozze londinesi, a Drax, il ragazzo che esaltava il proprio coraggio dentro la galleria, le ragazze del branco non avrebbero pretesti per fremere davanti alla sua virilità. Il paradosso, e il rischio, di questa forma di espressione popolare, è proprio che la accettazione - o la rassegnazione - tolgano quel gusto dell’atto criminoso, ma non violento, che motiva tanti di loro. Che anche questo grido di libertà e di originalità individuale, nella società di noi cloni consumisti, si esaurisca perché assorbito nel "mainstream", nel grande fiume del commercio che tutti assorbe e omogeneizza. Come hanno fatto in Giappone le grandi aziende elettroniche quando hanno scoperto che le ragazzine delle medie e dei ginnasi avevano inventato la propria forma di "graffiti", non sui muri, ma sulle foto scattate nelle cabine pubbliche. Si facevano fotografare e poi scarabocchiavano sopra frasi in gergo, messaggi segreti, allusioni educatamente sexy e comprensibili solo a loro. E immediatamente hanno costruito cabine che offrono scritte, formule, ornamenti preconfezionati e prestampati. ‟Se le pulsioni creative e ribellistiche degli adolescenti che dipingevano i muri e i vagoni si esauriscono nei messaggini telefonici e nella grafica preconfenzionata in Internet” ha scritto l’inglese Nancy McDonald che ha dedicato una vita all’arte di strada ‟di questa generazione non resterà che qualche elettrone consumato nell’aria”.

L’eredità futura
Forse non resterà molto neppure delle fatiche mini michelangiolesche, a volte di notti e giorni interi, di coloro che dipingono vagoni destinati tutti alla rottamazione e muri destinati alle ruspe e nell’effimero di queste Sistine da strada anche gli autori apprezzano l’ironia. ‟Il mio lavoro scomparirà con me” diceva Banksy, nickname di uno dei "caposcuola" inglesi ‟ma a me basta sapere che un giorno qualcuno ha guardato una carrozza del metrò passare e ha visto quello che ho fatto, anche senza conoscermi”. Io sono esistito, per un attimo. Poi, tutto transitorio e dimenticabile, come un Sms, come la televisione. Da buttare. Come quei graffiti coi quali adulti responsabili e per bene imbrattarono il mondo, per invitarci i a ‟Vincere! E Vinceremo” o con appelli alla ‟Gloria per il Nostro Grande Timoniere”. Vandali per vandali, allora meglio un sincero vaffanculo a grasse lettere in 3D su un vagone della subway in corsa, che uno ‟Juden Raus” o un ‟Morte agli immigrati”.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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