Vittorio Zucconi: Il machismo americano copiato anche da Stalin

14 Novembre 2005
Il cielo costava appena un centesimo. E il fiato necessario per scalare 86 metri. Per i valorosi disposti a investire quella somma e ad arrampicarsi a quelle altezze siderali, la guglia della Trinity Church a Wall Street offriva quella che il pastore della chiesa chiamava ‟la vista di tutta l’isola di Manhattan”.
Non mentiva, il buon pastore, non esagerava. Era proprio così. In quel 1850, quando la chiesa Episcopale della Trinità fu inaugurata, la sua guglia di 86 metri era l’edificio più alto di tutta New York. Lo sarebbe rimasto fino alla fine del secolo, fino alla costruzione del primo, timido grattacielo, il Manhattan Life Insurance Building a Broadway, nel 1898. Erano nanerottoli, la chiesa della Trinità, il palazzo delle Assicurazioni Manhattan a 130 metri, il Singer Building di 200 metri, il quartiere generale della Metropolitan Life a 250, che si sarebbero accavallati l’uno sull’altro nella sfida del Ventesimo secolo al cielo, casupole rispetto ai 450 metri e ai 110 piani delle future Torri Gemelle. Ma apparvero come ciclopi, ai lillipuziani dei ghetti ucraini e delle terre di fatica italiane, dei villaggi irlandesi e delle izbe russe che li guardarono sfilare sbigottiti, senza capire, scivolando sull’acqua verso i moli di Brooklyn, figure mitologiche destinate a stamparsi nella loro immaginazione e nella immaginazioni dei figli dei figli come la rappresentazione più assoluta e certa di ciò che noi chiamiamo America.
Una simbiosi di architetture e di umanità che una mattina di settembre avrebbe fuso per sempre in una lega indissolubile, nella fornace del World Trade Center. è facile capire quale fiotto maligno di venerazione, di sbigottimento e di odio doveva bollire nel petto di coloro che lanciarono due grandi aerei contro i grattacieli più alti di New York, quando si cammina dentro la foresta pietrificata di Manhattan, o nel centro di Chicago, o quando si passeggia sulla "promenade" di Brooklyn celebrata da Woody Allen col clarinetto di George Gershwin. O, quando, dopo ore e ore di guida nella monotonia stupefacente delle grandi pianure alluvionali, l’ipnosi del vuoto si infrange nel miraggio di una qualsiasi, miserabile cittadina del Mid West che spara all’orizzonte il monumento a se stessa, l’immancabile "skyscraper". Nel profilo degli Stati Uniti, che è orizzontale e ondulato, come lo aveva sognato Thomas Jefferson immaginando la futura nazione come una valle del Chianti lunga cinquemila chilometri, i grattacieli non sono oggetti funzionali, né prodotti della necessità immobiliare, come nella New York dai costi del terreno astronomici. Sono scelte. Obelischi eretti per celebrare se stessi. In Indiana o in Oklahoma, in Kansas, in Texas o in Nebraska, dove la terra costa nulla e un ettaro è come un vaso da fiori sul terrazzo a Milano, sarebbe assai più economico spalmare gli impiegati della solita assicurazione o banca o azienda in un campus di casette sparpagliate, senza gli incubi della climatizzazione, degli ascensori, dei sismi, degli incendi, della manutenzione che un grattacielo di cento piani comporta. Per anni così fecero i Dupont de Nemours, i monopolisti della polvere da sparo ingrassati da tutte le guerre americane, che nel Delaware controllavano l’azienda da una serie di baracche affiancate. Se Tulsa, in Oklahoma, o Rapid City in South Dakota, o Indianapolis in Indiana vogliono il loro lembo di foresta delle sequoie pietrificate, è perché i maggiorenti della città hanno sentito il bisogno di gridare la loro presenza. Hanno voluto il loro obelisco che annunciasse, visibile per miglia e miglia nelle giornate chiare: ci siamo anche noi. E anche questa nostra macchiolina sulla carta, nel mezzo del nulla, è America tanto quanto Chicago o New York o San Francisco. Megalomani, generosi, volgari, materialisti, spacconi, magnifici, scintillanti, i grattacieli americani sono la rappresentazione della virilità di un popolo. Se la maggior parte degli Stati Uniti è femmina, nella curvatura materna del loro interno nutrito dalla generosità del fiume più fertile del mondo, il Mississipi, che la divide in due metà esatte, le città sono maschili, egolatre, aggressive ma fragili come bambinoni, se l’interno non le nutrisse e non le abbracciasse. Tanto eloquente è la loro potenza simbolica, che le capitali dei nuovi uomini ricchi della terra, dai cinesi di Shanghai ai giapponesi della Tokyo di Shinju-ku, dagli Indonesiani ai Taiwanesi, si affrettano, appena hanno soldi da buttare, a sfogare la loro "invidia del pene" americano erigendo torri insensate ma più grosse. Persino l’Urss di Stalin, che sarebbe dovuta essere immune dal maschilismo esibizionista del profitto, soffrì del complesso. Volle erigere quei sette mostruosi grattacieli nello stile art nouveau e "wedding cake", torta nuziale, nato nella Manhattan degli anni Venti non per vezzi architettonici, come Stalin credeva, ma per regolamenti edilizi che obbligavano a costruire palazzi a gradinate via via più strette per non chiudere le strade nell’ombra perenne, problema che Mosca non aveva. Talmente succubo del mito totemico americano era Stalin, che pretese in quei grattacieli le prese di corrente all’americana, quelle a baionetta, costringendo a importare prese elettriche speciali soltanto per loro. Ci cadde pure il più moderno Kruscev, inventando una strada di Mosca, il Prospekt Kalinin, per scimmiottare la Quinta Strada. Ci siamo cascati in molti nel sogno del grattacielo, almeno noi della "American generation", della generazione dei figli della guerra e della liberazione dal Fascismo, in un’Italia che di Manhattan aveva visto soltanto le figure, e perciò chiamava i suoi grattacielini tascabili con accrescitivi commoventi, come il "Pirellone". O come quei "centri direzionali" che non avrebbero impressionato neppure il reverendo pastore della "Trinity Church". Ma il modello non era trasferibile, era, come è nel mondo nuovo, una scimmiottatura. L’America senza grattacieli sarebbe impensabile, peggio, una "non America" come sognavano gli assassini di settembre, perché lo "skyscraper" di Manhattan o di dowtown Chicago, dove il grattacielo in realtà nacque, è magnifico perché è il frutto naturale dell’albero che lo ha prodotto. Una Manhattan di villette unifamiliari a due piani - come pure era, prima di arrivare agli orti e alle fattorie di Harlem, a metà del Diciannovesimo secolo, ci sembrerebbe, giustamente, assurda come un Empire State Building sulla Piazza del Campo a Siena. Ma anche l’ideologia dell’orizzontale e dell’anti-grattacielo si è dissolta. Nel sangue, come si dissolvono tanti dei miti ideologici. Il suo zenith è coinciso con il suo nadir, nell’11 settembre, con la distruzione rituale del totem americano e in quello stesso giorno, purtroppo senza resuscitare le vite, anche con la sua rinascita. La Manhattan soffocata dalle sequoie pietrificate, che tanti avevano dato per ferita a morte, è tornata a vivere con rabbia. Ora gli acquirenti si contendono appartamenti a prezzi stratosferici in gare d’asta. I costruttori rastrellano quartieri disastrati - il West End dei vecchi musical col coltello a serramanico, i vecchi mercati generali della carne, il lungo Hudson, addirittura parti del Bronx già frontiera del "vicino west" e le strade oltre il confine razziale della "100th" al di là del quale i "bianchi" non osavano entrare - per vendere appartamenti ridipinti e risistemati a milionari e scommettitori che si indebitano oggi per rivendere con profitto un mese più tardi. Un tabloid di New York racconta che la polizia ha arrestato, negli ultimi anni, almeno venti falsi "immobiliaristi" che avevano venduto l’Empire State Building a ingenui, ma ricchissimi turisti asiatici appena sbarcati dall’aereo, con tanto di avvocati, compromesso e, naturalmente, congruo anticipo.
L’abbattimento delle Torri Gemelle non è stata la morte, come speravano i suoi carnefici, ma la resurrezione del grattacielo, la rivincita dell’orgoglio della città, la riscoperta che l’affastellarsi l’uno sull’altro, per dozzine di piani, come su vassoi di umanità alti centinaia di metri, non aliena, come voleva la retorica socio politica anni Sessanta e Settanta, ma può riavvicinare, riumanizzare, scaldare. Persino il temuto ascensore, con quel suo incerto e imbarazzato galateo di occhiatine, colpetti di tosse e sguardi imploranti al rosario dei piani che scorre sempre troppo adagio anche ai sessanta chilometri all’ora degli ultimi impianti, è un luogo di possibile socializzazione, di valutazioni, di seduzione, di timide avance, forse di futuri amori. La corsa all’altezza è finita, ma il grattacielo, già arroganza del futuro, è diventato archeologia, dunque nostalgia. Basta arrivare a New York con il treno che sale dal sud fra gli orrori petrolchimici del New Jersey, o sbucare dall’autostrada 95 correndo verso il Lincoln Tunnel che conduce a Mid-town Manhattan e cercare con gli occhi quello che conoscevi tanto bene e che non c’è più, per sentire il rimpianto, e la voglia, di un sorriso sdentato, ma ancora vivo. i tanto bene e che non c’è più, per sentire il rimpianto, e la voglia, di un sorriso sdentato, ma ancora vivo.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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