Vittorio Zucconi: David, giustiziato per “sentito dire”

05 Dicembre 2005
Mancavano 24 ore, ma non aveva paura. Lui era innocente. Glielo avevano detto tutti, il suo avvocato, il cappellano, persino il direttore del penitenziario del Texas dove aveva passato quattordici anni, che il castello delle accuse contro di lui si era disfatto. Neppure quando il furgone bianco si era fermato davanti all’uscita della "Unità numero 1", il suo blocco, per portarlo alla camera della morte distante quindici chilometri e gli avevano chiesto che colore avesse scelto per la tuta sudario (blu, azzurro, giallo o arancione?), David Wayne Spence aveva avuto paura. Il boia avrebbe suonato a un’altra porta. Questa era l’America, il paese con il miglior sistema giudiziario del mondo, con il massimo di garanzie per gli imputati. Lo aveva sentito dire da quando recitava a scuola ogni mattina, con la mano destra sul cuore, il "pledge of allegiance", il giuramento di fedeltà alla bandiera. Ne aveva visti tanti, in quattordici anni, partire dall’"Unità numero 1" sul furgone bianco e poi tornare alla sera, quando un ordine dei Tribunali o un fax del governatore del Texas aveva fermato l’esecuzione. "See ya tomorrow", l’aveva salutato Corky, il tappetto, il più piccolo delle guardie con una strizzata d’occhio, ci vediamo domani. E lui era innocente. Zampettando con le catenelle alle caviglie, salì sul furgone bianco. Non sarebbe mai diventato uno dei mille e non più mille, sacrificati sulla forca. Sulla tuta arancione, il colore che aveva scelto, stava stampato il numero di matricola, 997107, un numero alto e quindi fortunato, secondo le superstizioni di Radio Carcere. Prima di chiudere il portello del furgone, il vice direttore della prigione, Jim Willet, gli chiese che libro volesse portarsi nella camera della morte e David rispose subito la Bibbia. Porta bene chiedere la Bibbia, avvertiva sempre Radio Carcere. Gli diedero una copia. Il portello si chiuse. Il furgone si avviò nella sera verso la sua destinazione, il Muro, the Wall, l’altissima muraglia di mattoni rossi che nasconde il vecchio penitenziario di Huntsville, dove si fanno le esecuzioni. David Wayne Spence rimase in silenzio per tutti i venti minuti del tragitto, percorso adagio e con prudenza perché Dio non voglia che il passeggero si faccia male. Anche lui, come tutti, mi disse poi il vice direttore del carcere che oggi guida le visite dei turisti nel blocco della morte come fosse un luna park (tre dollari ingresso adulti, sconti per bambini e anziani) dovette rivedere nel buio del furgone il film degli avvenimenti che lo avevano portato lì. Rivide il Waco Lake, il laghetto di Waco, una cittadina del Texas vicina a dove oggi George W Bush ha il proprio ranch. Era stato accanto a quella pozzanghera chiamata generosamente "lago" che una sera di quindici anni prima due ragazzi e una ragazza, tutti di diciassette anni, erano stati avvicinati da un omaccione nero di pelle sceso da una Oldsmobile Cutlass color oro, tramortiti a randellate, spinti a forza contro quell’auto e squartati con un coltello dentato da caccia al cervo, uno per uno. ‟Nessuno dice mai una parola”, ricordava Willet che ne ha accompagnati una ventina. Quando lo sceriffo di Waco, prossimo alle elezioni, aveva arrestato David gli aveva detto che un teste oculare l’aveva riconosciuto nell’aggressore della notte. Al processo, due vicini di cella avevano testimoniato di averlo sentito confessare, in carcere. Il suo avvocato, uno specialista in rogiti e testamenti che per trenta dollari all’ora faceva anche il difensore d’ufficio per arrotondare, si era scosso dalle sue pennichelle in aula soltanto per chiedere la clemenza della corte, che non era stata concessa. Era stato condannato a morte e rinchiuso nell’"Unità numero 1", in una di quelle celle che l’amministratore del museo mostra se sono vuote. La cella misura due metri per tre. Ha una branda - senza molle - di due metri e dieci. Un lavandino e una tazza del cesso senza tavoletta, per non offrire potenziali utensili, sotto la feritoia in alto. Non ci sono riscaldamento né aria condizionata, perché a Huntsville, gli inverni sono tiepidi, le estati roventi. Il pavimento è di cemento e David Spence poteva uscire soltanto per i dieci minuti di doccia quotidiana. Ogni tre giorni, un cambio di biancheria e di calzoni. Ogni giorno, una salvietta pulita. Si può toccare: cotone ruvido, ma buono. Una telefonata al giorno. Con quella telefonata, dopo mesi e mesi, David aveva pescato finalmente un avvocato vero disposto a rappresentarlo "pro bono", gratis. Il legale aveva fatto qualche indagine e il caso contro Dave Spence si era subito sfarinato come un castello di sabbia davanti all’onda. Il teste che l’aveva identificato aveva ammesso di vederci male e niente di notte. I capelli e i peli umani trovati addosso a quei tre poveri disgraziati e sotto le unghie della ragazza non erano risultati suoi. Nessuna traccia del dna di Dave era stata trovata addosso alle vittime, quando i loro abiti intrisi di sangue e materia organica erano stati riesumati dal magazzino delle prove. L’impronta di denti trovati sul corpo della ragazza, che un dentista aveva attribuito al condannato, erano risultati invece denti di un animale che nella notte aveva fiutato quei corpi. L’Oldsmobile dorata di Dave era stata smontata e analizzata pezzo per pezzo e non era stata trovata alcuna traccia di sangue. E due vice sceriffi andati in pensione avevano dichiarato sotto giuramento che nessun indizio contro il condannato era mai venuto fuori e tutto era sempre dipeso dalla testimonianza di quei compagni di carcere, che avevano ‟sentito dire”, in cambio di grandi sconti di pena, perché lo sceriffo aveva deciso di risolvere così il caso e buonanotte. L’avvocato aveva tranquillizzato Dave Spence. Il suo caso era uno "slam dunk", una schiacciata, nel gergo del basket. La Corte Suprema o il Governatore del Texas, che nel frattempo era divenuto un tale George W Bush, avrebbero accettato la domanda di commutazione e poi un nuovo processo. La camera della veglia funebre, dove fu scaricato, dietro il Muro, era molto più confortevole della cella. è grande cinque metri per cinque, come una bella stanza matrimoniale. Ci sono un tavolo di metallo e due sedie e anche un piccolo televisore Panasonic appeso alla parete, a colori, guai se fosse in bianco nero. Sul tavolo, una risma di carta e un mazzetto di matite ben temperate. Quando lui si sedette, il direttore gli disse di scrivere il testamento. ‟Non ho niente da lasciare a nessuno”. Hai il tuo corpo, gli rispose. ‟Ma io sarò graziato, non si preoccupi, non ci sarà nessun cadavere”, rise. Il direttore non rise. Se nessuno fosse venuto a prendersi la salma, l’avrebbero sepolta nel camposanto con una croce, la data e il numero. Niente nome, allora, oggi almeno lo incidono. Mancavano trentasei ore. L’avvocato telefonò. Era emozionato: ‟Sta uscendo il fax dall’ufficio del governatore Bush”, gli gridava. Dave sentiva i sibili e gorgoglii della macchinetta. Poi un lungo silenzio. Cosa? Cosa dice? L’avvocato sembrava avere perso la voce. Poi parlò. ‟Dice che la grazia è stata respinta”. Non è possibile. Invece è così, e l’avvocato riattaccò il telefono. Poi richiamò: ‟Dave, c’è ancora la Corte Suprema, domattina, non è finita, perché tu sei innocente”. Mancavano dodici ore. Gli diedero due pastiglie per dormire, e dormì fino a mezzogiorno. Alla mezza gli portarono da mangiare, solito hamburger con patate fritte, ketchup e gelato alla vaniglia, ormai non possono più scegliere il menu, perché lo stato limita a venti dollari il budget per l’ultima cena, mica si possono viziare. Richiamò l’avvocato. Allora? ‟Allora, la Corte ancora non ha risposto, c’è speranza”. Mentiva, perché sapeva che tutto quello che la Corte deve fare per respingere è niente. Il cappellano entrò e con lui il direttore del penitenziario, per raccogliere le ultime parole. ‟Sono innocente di quel delitto - scrisse David Spence - e voglio dire ai genitori di quei ragazzi che io sono la quarta vittima”. Il direttore gli lesse la sentenza: ‟Noi, popolo del Texas, condanniamo te...”. ‟In the name of Father, the Son and...”, intonò il cappellano. Alle 17 e 45, il condannato entrò nella cella dell’esecuzione, con la barella bianca che lo attendeva a braccia aperte, bianca come un gabbiano ad ali spiegate. ‟Guardi che io sono innocente e la telefonata può arrivare anche all’ultimo”, disse al direttore, ‟stia accanto al telefono”. Ci sto, ci sto, lo rassicurò il direttore, dall’altoparlante. Due guardie, pescate a sorte perché non siano mai le stesse e non diventino quindi "boia" professionali, addestrate da un infermiere, gli ficcarono l’ago principale e quello di scorta nelle braccia e uscirono. Si muore soli. Il direttore attese fino alle 18 e 05, per regalargli cinque minuti di vita. Poi fece cenno con la testa. Il primo stantuffo scese. Il condannato stringe sempre i denti quando sente il liquido scorrere. Ma la prima siringa pompa soltanto soluzione fisiologica, acqua e sale, per lavare le arterie. Un altro cenno con la testa. Scende lo stantuffo con il sodio thiopental, l’anestetico. Dave ebbe uno scrollone, tentò di tenere gli occhi aperti, ‟come fanno tutti” ci disse il direttore, poi l’anestetico gli rovesciò le orbite all’indietro. Scesero gli altri stantuffi, con il bromuro di curaro per provocare il collasso del diaframma e dei polmoni e bloccare la respirazione, poi il cloruro di potassio, per arrestare il cuore. Alle 18 e 16, al costo di ottantasei dollari per le tre sostanze, il medico del carcere lo dichiarò morto. Era il 3 aprile del 1997. Se passate da Huntsville, nel Texas, andate a visitare il museo, le celle della morte e passate nel cimitero. Cercate la croce col numero 997107. Sotto dorme un uomo che andò a morire innocente. Non si possono deporre fiori. Quanti sono morti come lui, sapendo di essere innocenti, fra quei mille?

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …