Umberto Galimberti: La festa. Nel tempo sociale cercando la felicità

27 Dicembre 2005
Che significa "fare la festa a qualcuno" o peggio "conciarlo per le feste"? Che cosa c’è di minaccioso in questa espressione se la festa è solo gioia e godimento? Oppure dietro l’apparente innocenza e serenità festiva c’è qualcosa di inquietante che neppure le nostre più ostinate rimozioni riescono a nascondere? Filosofi, antropologi, sociologi e psicologi concordano nel definire la festa una forma temporale correlata all’organizzazione sociale del tempo, che scandisce con ritmo e ritualità il "tempo festivo" carico di valenze sacrali e il "tempo feriale" caratterizzato dall’attività lavorativa e produttiva. Ma che nesso c’è tra questi due tempi? L’eterno nesso che lega il bisogno umano di felicità con l’altro non meno irrinunciabile che chiede sicurezza. Sottese a queste due esigenze tra loro antitetiche ci sono due diverse concezioni del tempo. Per la felicità esiste il tempo come "assoluto presente", dove basta desiderare per avere, dove nulla è da conservare ma tutto da fruire, dove il godimento, lo spreco e il consumo gioioso sigillano quel ritaglio di tempo che da sempre gli uomini hanno chiamato "festa". Per la sicurezza il tempo esiste come "incerto futuro", dove per avere occorre lavorare, dove nulla è da fruire ma tutto da conservare, dove la previsione, il calcolo, la prudenza, il passo dopo passo, e non il passo più lungo della gamba, sono le regole in cui contenere la vita. E così queste due visioni del tempo, su cui felicità e sicurezza giocano i loro ritmi, cadenzano i nostri sei giorni feriali e il giorno festivo, con qualche intermezzo in più che le nostre abitudini linguistiche chiamano "le feste": Natale, Capodanno, Carnevale, Pasqua, le ferie, giorni che il nostro bisogno di felicità sottrae al lavoro ordinato dal nostro bisogno di sicurezza. Ma le feste, ognuno di noi lo sa, sono tutte "comandate". Un tempo dagli dèi e dai sovrani che emanavano le leggi e che, proprio perché le emanavano, ne erano al di fuori e quindi abitavano la trasgressione. Ai sovrani e agli dèi tutto era lecito, e di questa liceità partecipavano i sudditi e i fedeli quando celebravano le feste dei sovrani e degli dèi. La festa non sospendeva i divieti, ma, come ci ricorda Freud, permetteva che si compissero atti di regola vietati. Introducendo in questo modo la trasgressione, la festa ribadisce il divieto. Per questo le religioni, dove massimamente si raccolgono i divieti, introducono le "feste comandate" e, nelle feste, ordinano le trasgressioni. A sentire Georges Bataille, che alla festa ha dedicato pagine in cui è il nucleo della sua critica alla civiltà occidentale, la trasgressione festiva soddisfa il bisogno incontenibile di distruzione e di spreco che le società primitive, a differenza di quelle attuali, sapevano soddisfare rinunciando a quell’economia del risparmio e dell’accumulo in cui gli antichi individuavano la "parte maledetta", perché "il sentimento di una maledizione è legato all’accumulo della ricchezza che, non consumata nel godimento, poi ritroviamo a fondamento della repressione del potere". Affine a questa interpretazione è la lettura del filosofo Roger Caillois, che, muovendosi in sintonia con le interpretazioni dello storico delle religioni Mircea Eliade, del mitologo Karoly Kerenyi e del nostro antropologo Vittorio Lanternari, vede negli eccessi festivi lo stadio di indifferenziazione originaria da cui è nato l’ordine. «L’età dell’oro - scrive infatti Caillois - era nello stesso tempo età del caos, in cui ogni forma era instabile e sconfinava in ogni altra forma. Ricreando periodicamente una situazione di indifferenziazione, la festa riproduce i primordi e attinge ai loro poteri per ripetere il processo di formazione dell’ordine”. In questo senso, conclude Caillois, la festa può essere definita come il «parossismo della società” che in tal modo si purifica e periodicamente si rinnova. Il motivo della "trasgressione" e del "rinnovamento" ritornano a più riprese in Totem e tabù, dove Freud giunge a ipotizzare che, offrendo un’esca al godimento, la festa diventa paradossalmente il principio dell’ordine. Infatti, concedere una festa e mostrare di poterla concedere è il modo più sicuro con cui un potere o una religione possono rafforzare la garanzia del futuro. Anticipando in piccola misura il godimento, essi dimostrano di possederne il segreto e di essere pronti a ripartirne il beneficio. Alla fine ciò di cui i sudditi o i fedeli inconsapevolmente godono non è della trasgressione festiva, ma del privilegio, del prestigio e dell’autorità di coloro che, in particolari momenti, possono sospendere la legge e concedere la trasgressione. Oltrepassando i divieti, infatti, la trasgressione festiva li ribadisce, e dal di fuori li fa funzionare meglio. Col dispendio senza limiti, con la prodigalità incontrollata, la festa, investendo le riserve, inaugura un altro ciclo di produzione, sospende provvisoriamente il sacrificio e la rinuncia per riaffermarli nella loro radicalità. Per questo il discorso festivo non corre alcun rischio. La parodia delle istituzioni che si celebra nella festa, dai Saturnali degli antichi romani ai Capodanni delle nostre società, la negazione di ogni gerarchia e il rovesciamento in commedia di ogni dramma umano avvengono sotto una maschera che consente a ciascuno di non mettere a repentaglio la propria testa, perché tanto, nel concetto comune, tutti, nel giorno di festa, l’hanno già perduta. Il rischio è iscritto nel calcolo che prevede che ogni godimento si paga, e non solo con la fatica necessaria per ottenerlo, ma anche con il senso di colpa inevitabile per espiarlo. Non c’è pedagogia che non si avvalga di questa versione della festa e del godimento, o di questa conversione della trasgressione nella legge, con la forma ribadita di un codice già dato o con la fondazione di un codice nuovo. Così era presso i primitivi. Oggi, spariti dèi e sovrani, della festa è rimasto il ritmo, la cui cadenza non è meno ossessiva del ritmo del lavoro, e i rituali che innesca non meno rigidi dei rituali dei giorni feriali. E se una prima forma di disagio incominciasse ad annunciarsi proprio qui: nel fatto che gli uomini di oggi, persuasi di essere molto più liberi degli uomini primitivi, si accorgessero di essere incapaci di esistere al di fuori del ritmo e del rito? Sarebbe il trionfo del bisogno di sicurezza sul desiderio di felicità, di cui in circolazione, tra luccichii e frenetici scambi di sorrisi e doni, resterebbe solo la faticosa messa in scena, di cui tutti più o meno ci lamentiamo, senza saperci minimamente sottrarre.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …