Vittorio Zucconi: Il giallo dell’impronta digitale

16 Gennaio 2006
Ivan e Francisca partirono da lontano, in un lungo viaggio che li avrebbe portati a incontrarsi su una piccola macchia umana. Ivan partì più da lontano, da Lessina, in Croazia dove era nato nel 1858. Prima via terra verso Trieste, poi in bastimento attraverso l’Adriatico, il Canale di Sicilia, il Mediterraneo Occidentale, Gibilterra, l’Atlantico che gli sembrò immenso, prua fissa a Ovest fino allo sbarco a Buenos Aires. Ci arrivò che aveva ventiquattro anni, un baule di vimini, un’idea in testa e le pezze al sedere. Francisca ebbe un passaggio più breve, dalle Asturias dove era nata e portata via bambina dai genitori emigrati. Arrivò in Argentina che aveva sei anni, era il 1861, e finì senza avere la più vaga idea di dove fosse in un villaggio sull’oceano della provincia di Baires, Necochea. Da grande ricordò di avere spesso giocato sulla spiaggia, allora deserta, raccogliendo i gusci delle grandi lumache di mare, i "caracol", quelli che appoggi all’orecchio e credi di sentire il mare. Fra lei e Ivan, l’uomo venuto dai Balcani, c’erano i 502 chilometri che dividono Necochea da Buenos Aires, una distanza enorme che avrebbe cominciato a stringersi lentamente fino a divenire un cappio attorno al collo di Francisca. Le vite di Ivan e Francisca cominciarono a convergere, senza che nessuno dei due conoscesse l’altro. La scintilla fu una di quelle esagerate feste da poveri nelle quali si mangia e si beve come se quel pasto dovesse riempire la pancia per dieci anni, un matrimonio. Francisca sposò un tale Alvaro Rojas, e divenne la signora Francisca Rojas, ben presto madre di due figli, due maschi. Il primo nacque nel 1886 il secondo due anni più tardi, nell’88. Avevano dunque sei e quattro anni quando, il 29 giugno del 1892, un vicino entrò in casa mentre il marito era fuori a cercar da mangiare, sgozzò i due bambini e tentò di tagliare la gola anche a Francisca che cercava di difendere i figli. Le impronte erano stampate nel sangue che aveva schizzato la stanzetta, sui muri, sul pavimento. E soprattutto sul manico del coltello da cucina usato per i delitti. La madre, salvata da passanti che erano entrati in casa alle grida, non era ferita gravemente. Si salvò e si riprese abbastanza in fretta per descrivere con cura l’uomo che aveva compiuto quella strage, un vicino, il solito bruto, uno spasimante che più volte aveva tentato di violentarla e di convincerla a lasciare il marito per lui, Pedro Ramon Velazquez. Le donne del quartiere confermarono che questo Velzaquez era una pellaccia, del quale tutte, soprattutto le giovani, avevano gran paura. Francisca lo riconobbe al commissariato. La polizia di Necochea lo arrestò, il magistrato lo incriminò, la data del processo fu fissata, la sentenza scontata. Un caso, purtroppo, banale se in quella stazione di polizia nel mezzo di ciò che allora era il nulla, a cinquecento chilometri da Buenos Aires, non ci fosse stato un commissario che leggeva molto e aveva il pallino di una scienza nuovissima, di qualcosa che il clima positivista, entusiasticamente filo scientifico della fine Ottocento, aveva generato tra mille altre speranze e scoperte: la "criminologia antropometrica". Noi diremmo oggi la polizia scientifica. L’idea che i crimini potessero essere risolti non torturando i sospetti secondo i premiati e popolarissimi metodi di interrogatorio, non affidandosi alle parole, all’intuizione o all’esperienza degli investigatori, alle spesso ingannevoli e fallaci testimonianze, ma a prove materiali, tangibili, entusiasmava i buoni poliziotti. Il commissario, del quale non si ricorda il nome, era un uomo curioso, un funzionario diligente. Aveva letto che a Buenos Aires un tizio venuto dall’Europa aveva cominciato a studiare, misurare e a catalogare impronte digitali, sostenendo che la loro unicità e le loro caratteristiche inconfondibili avrebbero permesso di identificare chiunque le avesse lasciate su una scena delittuosa. Da millenni, e da qui era partita la sua teoria, i vasai e ceramisti cinesi prima e poi giapponesi, avevano usato l’impronta delle dita impressa sulle loro opere per firmarle e renderle dunque inimitabili ed esclusive. Raccolse una collezione di impronte digitali impresse nel sangue, sul manico del coltello, sugli stipiti delle porte, più quelle prese con l’inchiostro sulla carta all’imputato. Le spedì alla centrale di Baires, dove questo "criminologo positivista" cercava di trasferire e di utilizzare questa nuova teoria avanzata in Europa da un antropologo francese, Bertillon, e poi dal cugino di Darwin, Francis Galton, e chiamata con il nome non proprio accattivante di "Icnofalangometria". Sulla busta delle impronte prese nella casa di Francisca Rojas scrisse il nome del destinatario: Juan Vucetich. Ma Juan non era il suo nome di battesimo. Era la traduzione in spagnolo di Ivan. L’Ivan che dieci anni prima si era imbarcato su un bastimento a Trieste con rotta per l’Argentina. Juan/Ivan studiò le impronte arrivate da Necochea. Le misurò, le fotografò con i mezzi del tempo, le ingrandì sulle lastre di vetro, le confrontò con quelle studiate nel suo archivio, le misurò con i parametri antropometrici che aveva calcolato pazientemente, valli e creste, riccioli e gorghi sulle falangi, e la sua conclusione, spedita ai magistrati prima del processo, fu categorica: le impronte di Pedro Ramon Velazquez non potevano essere quelle trovate nella casa del massacro. Azzardò anche un’ipotesi: da quello che risultava a lui, quella mano che aveva lasciato i segni era probabilmente una mano femminile. Erano ancora, in quel 1892, semplici teorie, ipotesi che le tecniche investigative e i magistrati non avevano mai usato né erano obbligati a tenere in considerazione. Ma quando il commissario e i giudici le misero di fronte a Francisca, povera contadina emigrata dalle miniere delle Asturias, presentandogliele, con un bluff, come la prova certa che Pedro fosse innocente e lei l’assassina dei suoi figli che aveva fatto la sceneggiata dell’aggressione, la donna crollò. Che poteva sapere lei di Darwin, di suo cugino Galton, dell’antropologo francese Bertillon, del medico italiano Malpighi, il primo a studiare la conformazione particolare della pelle sui polpastrelli, di quella cosa che neppure sarebbe riuscita a pronunciare, la "ictof", "ifco", insomma, la "icnofalangometria". Neppure Ivan, o il solerte commissario di polizia, avrebbero mai potuto immaginare che, almeno fino alla decade Novanta del ventesimo secolo, che avrebbe portato la prova della più profonda macchia umana, il dna, a spodestare le impronte digitali come prova sovrana, l’intuizione di questi uomini ispirata dai vasai Ming avrebbe spedito in carcere, sulla forca o liberato milioni di lazzaroni e innocenti. E che cent’anni dopo il cervellone centrale dello Fbi, come quello di Interpol, avrebbe raccolto, misurato, pesato e associato a nomi e cognomi, 70 milioni di impronte digitali di schedati con precedenti penali, di funzionari o giornalisti che hanno dovuto intingere le falangi nell’inchiostro per ottenere accreditamenti o permessi, più un numero segreto di persone ignare che neppure sanno di avere il proprio dito dentro l’archivio. Neppure i dubbi che in questi mesi sembrano avere afferrato lo Fbi di Washington, che sta rivedendo tutti i casi di condannati a morte identificati attraverso le loro "fingerprint", le ditate, potranno mai cambiare l’enormità di quella novità che il ragazzo croato portò dai Balcani per la prima volta sul continente americano. Forse neppure quello studio del dna, che ha un margine di errore infinitesimale anche rispetto alle impronte digitali, misurabile in miliardi contro uno se la sequenza genetica è completa, sarebbe servito in quell’orrendo macello sulla spiaggia argentina, perché di "materiali genetici" lasciati dall’imputato, dovevano esserci casse, vista la sua violenta frequentazione della casa di Francisca e le sue costanti aggressioni sessuali. Ma le impronte sul manico del coltello non potevano essere confuse o smentite e lontanissimi erano anche i tempi, i nostri, nei quali si possono trovare su Internet istruzioni su come falsificare le proprie impronte digitali. Millenni di passato e un secolo di futuro, dalle porcellane cinesi ai supercomputer dello Fbi, si abbatterono sulla schiena della contadina di Necochea. Scoppiò a piangere e confessò il delitto. Due mesi più tardi, Francisca Rojas fu condannata al carcere a vita per l’omicidio dei suoi figli, grazie a Ivan, l’uomo venuto dalla Croazia. Il percorso delle loro vite si era intrecciato per un istante, cambiandole entrambe e cambiando il futuro delle indagini di polizia e del duello eterno con il crimine. Quello di Necochea fu, se la storia dei delitti e delle pene non si sbaglia, il primo caso giudiziario nella storia risolto grazie alle impronte digitali.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …