Claudio Piersanti: L'astronave azzurra e il “topo tossico”

23 Gennaio 2006
Il giorno prima avevo dato le dimissioni da una tristissima casa editrice, il giorno dopo (grazie a un fortunoso tesserino di pubblicista) dirigevo un mensile di neurobiologia per conto di una grande industria farmaceutica. Un incontro maturato in un bar, dove mi era stato presentato un signore elegantissimo appena tornato in Italia dopo anni negli Usa. Era un medico ma aveva sempre fatto il manager in grandi industrie farmaceutiche americane. Era tornato da poco per lanciare la pillola anticoncezionale, e aveva deciso di rimanerci. Solo un americano (anche se d’origine italiana) può assumere come direttore responsabile un disoccupato conosciuto nel bar di un grande albergo. "Mi hanno detto che ha scritto un bel romanzo, e io voglio una rivista scritta molto bene". "Non so niente di neurobiologia" gli spiegai. Ma lui credeva che tutto si potesse risolvere con un corso accelerato. Il giorno dopo varcai le vigilatissime porte di cristallo dell’immensa ala industriale dedicata alla ricerca, accompagnato dal simpatico direttore. Il luogo che mi impressionò più di tutti fu lo stabulario, cioè l’enorme ambiente asettico in cui venivano custoditi gli animali per gli esperimenti. Centinaia, migliaia di animali, soprattutto conigli bianchi e topi, tutti identici, custoditi in gabbiette d’acciaio autopulenti. Nell’aria neppure il più vago odore animale. "Costano un mucchio di soldi" mi disse il direttore, "Ameno per questo dovrebbero credere che non ci divertiamo ad ammazzarli!". Del resto erano animali geneticamente selezionatissimi, e i loro nomi soltanto sigle glaciali, tipo C57BL\KS K11. Erano tutti stati concepiti in laboratorio e non avrebbero mai conosciuto il mondo esterno. La sensazione più strana era la loro apparente tranquillità. Ci guardavano, topi, conigli, gatti e cani. Molti, per praticità, avevano una sorta di valvola sulla scatola cranica, e da lì passavano i farmaci e le sostanze che i ricercatori immettevano nel loro organismo. Non si respirava un’aria di violenza, in quei reparti, e tutti i ricercatori sembravano buoni padri di famiglia per nulla intenzionati a fare del male a qualcuno. La mia istruzione accelerata fu caotica, approssimativa e in gran parte bellissima: assistere al microscopio a scansione al magico fenomeno dello sprouting: un neurone emette quel che si chiama "assone" un prolungamento dotato di una sorta di fiuto bio-elettrico, in grado di rigenerarsi e addirittura di sdoppiarsi, in caso di bisogno, per esempio per innervare una placca deteriorata da un semplice taglietto su un polpastrello. Ma naturalmente molti particolari importanti mi sfuggivano. L’ipotalamo, per esempio, non riuscivo proprio a capirlo. Un ricercatore, che stava per sezionare un topo bianco, lo decapitò davanti ai miei occhi e dopo un attimo mi mostrò il piccolo organo sulla punta del bisturi: ‟Questo è l’ipotalamo” mi disse. Uno dei momenti più drammatici della mia formazione "scientifica". Con l’aiuto di un giovane grafico un po’alternativo, mi misi al lavoro e nel giro di un paio di mesi feci uscire il primo numero della rivista. Allora si impaginava poco con il pc, e noi due lavoravamo con colle e righelli, sul tavolo luminoso. Ogni tanto, per distrarci o per raccogliere immagini e informazioni, andavamo in giro per i laboratori. Soprattutto di sera, e sempre negli ambienti chiusi, sembrava di vivere in un’astronave azzurrina. Tutti facevano ordinatamente il loro lavoro. I conigli, per esempio, avevano turni di quattro ore: venivano messi in catena proprio alla fine del processo produttivo, e svolgevano un ruolo essenziale: segnalare eventuali impurità nei farmaci iniettabili. Ogni coniglio riceveva attraverso la giugulare una piccola quantità di prodotto, e un termometro segnalava la minima variazione di temperatura causata da impurità. Quando succedeva il ciclo si interrompeva e quella impurità non avrebbe nuociuto a nessun essere umano. Ma il ricordo più vivido di quel periodo resterà per sempre il topo "tossico". Un esperimento diffuso in tutti i laboratori del mondo che studiavano il sistema delle endorfine. Il topo veniva reso dipendente dall’eroina, che entrava direttamente nel suo cervello attraverso un piccolo catetere. L’eroina veniva fornita dal tribunale, o dalla polizia. Il topo imparava presto che premendo un grosso pulsante rosso riceveva una dose. Ho avuto così modo di vedere, in sequenze accelerate, quel che succede agli umani. Giorno dopo giorno il topo invecchiava davanti ai nostri occhi, e sembrava il nonno dei suoi numerosi fratelli non intossicati. Non si interessava più del cibo, perdeva i denti, il pelo diradava e ingrigiva. Passava tutto il suo tempo accanto al pulsante rosso e le sue richieste si facevano sempre più frequenti. Pigiava il pulsante con la zampetta ormai spelacchiata, la macchina rispondeva con un "bzz" e si accendeva una piccola luce. La sostanza scendeva subito nel suo cervello e lui tornava tranquillo. Con tutto il rispetto del mondo per i protocolli scientifici, e per i ricercatori e gli scienziati che ho imparato a stimare, il ricordo di questo povero animale, sempre più lontano dal mondo e destinato alla morte precoce, continua a suscitare in me una grande pietà, e voglio pensare che il suo sacrificio sia servito a qualcosa.

Claudio Piersanti

Claudio Piersanti, nato nel 1954, ha pubblicato romanzi e racconti, tra cui: Casa di nessuno (Feltrinelli, 1981; Sestante 1993), Charles (Transeuropa, 1986; Feltrinelli, 2000), Gli sguardi cattivi della gente (Feltrinelli, …