Vittorio Zucconi: Un Cavaliere al Congresso

27 Febbraio 2006
Un secolo e mezzo dopo il primo discorso di un capo di stato straniero davanti alle Camere riunite, Sua Altezza il re delle Hawaii David La’amea Kamanakapu Mahinulani Nalaiaehuokalani Lumialani Kalakaua misericordiosamente più noto ai sudditi come "the Merry King", il Re Buontempone, nel 1874, il primo ministro italiano Silvio Berlusconi si prepara a salire dopodomani sullo stesso podio, per proclamare la non sorprendente fedeltà italiana ai "valori" e agli interessi americani e ottenerne in cambio qualche minuto di propaganda elettorale senza fastidiosi bavagli per il consumo italiano.
Onore apprezzabile, questo concesso dalla capitale dell’impero a un ausiliario fedele, strappato a Washington da un anno di diligenti fatiche degli ambasciatori Vento e ora Castellaneta sotto campagna elettorale, per eludere i lacci e i bavaglini della par condicio. Molti sono stati infatti i notabili del mondo e italiani apparsi a quel podio dopo la caduta del fascismo. Berlusconi è il settimo a goderne, dopo De Gasperi (‘51), Gronchi (‘56), Fanfani (‘58) Segni (‘64). Craxi (‘85) e Andreotti (‘90), naturalmente nell’auspicio suo e nostro, di avere una sorte più fausta del Re Buontempone, il cui regno fu dissolto alla sua morte e annesso come colonia, appena vent’anni dopo, dallo stesso Congresso che lo aveva onorato.
Il joint meeting, e non la joint session, la sessione congiunta, come erroneamente viene spesso presentata e che è riservata al discorso annuale del presidente americano, si svolgerà come sempre nell’aula della House, della camera bassa, perché più grande del Senato e dunque meglio capace di contenere i parlamentari, il pubblico di curiosi e soprattutto i giornalisti al seguito che dovranno illustrare all’elettorato italiano la apoteosi americana del fedele amico di George W Bush. Bush stesso, purtroppo, per altri impegni precedenti, non assisterà, perché, mentre Berlusconi parlerà mercoledì mattina, sarà già in India, per una importante visita di Stato, dopo un breakfast di cortesia con l’ospite e la solita photo opportunity, la vignetta elettorale.
I discorsi di dignitari stranieri dal podio del Parlamento americano erano straordinariamente rari, prima della Seconda Guerra. Ma sono ormai routine nella attività del Congresso, che, su discreta iniziativa della Casa Bianca che non può imporre nulla al Parlamento ma può assecondare le implorazioni degli ambasciatori, lo ha concesso nel tempo a 98 notabili in rappresentanza di 47 nazioni, non poche. Tra coloro che hanno parlato davanti ai deputati e ai senatori, (formalmente il primo ospite fu il Marquis de la Fayette nel 1824, ma non era un uomo di governo) c’è stato dunque il meglio e il peggio di quanto la mutevole politica estera americana abbiano prodotto, appoggiato, onorato e poi spesso, come nel caso della sfortunata dinastia hawaiiana, brutalmente scaricato.
Winston Churchill parlò qui ben tre volte, record assoluto. Nelson Mandela, l’eroe dell’integrazione razziale in Sud Africa, apparve sul podio dal quale parlerà Berlusconi, come la Thatcher, Aznar, Eltsin e il presidente afgano Karzai, portato in un trionfo di gusto romano in costume nazionale come il pegno vivente dei successi di Bush nella guerra contro i nuovi barbari. Quasi mai i loro discorsi, che gli organizzatori e gli ambasciatori, con ogni dovuta delicatezza, scongiurano di tener corti, risultano memorabili, perché gli ospiti più accorti si sforzano di mantenere toni moderati e generici di fronte a un Parlamento composto di maggioranze e opposizioni spesso lacerate dalle scelte strategiche dell’Amministrazione al potere, come oggi nel caso bruciante dell’Iraq.
La storia insegna all’Impero del Bene che è cosa saggia non entusiasmarsi mai troppo per lo straniero di turno, perché le sorprese della politica sono sempre maliziosamente in agguato su quel podio. Vi apparvero infatti anche figure di incerta luce, come il dittatore cubano Fulgencio Batista, l’autocrate filippino Ferdinand Marcos, che poi lo stesso governo americano contribuì a deporre o il presidente messicano Carlos Salinas De Gortari, affettuosamente soprannominato in patria "Salinas de Fraudari". Un presidente il cui fratello fu condannato per l’omicidio di un avversario politico mentre un altro fratello fu trovato, lo scorso anno, giustiziato in stile gangster con un sacchetto di plastica sigillato attorno al capo.
Ci furono momenti di vero entusiasmo e di meritato onore nel nome dei principi e dei valori comuni, che sentiremo il nostro Berlusconi rivendicare per sé ed esaltare. Furono indimenticabili le ovazioni riservate dalle Camere affollate in ogni banco, a Lech Walesa o ad Anwar Sadat e Ytzak Rabin, i due martiri della pace in Medio Oriente. Riconoscimenti cordiali e commossi, non sospettabili di coreografie come quel premio che il capo del governo italiano riceverà a New York, su una portaerei, in una versione Disney della famosa calata di Bush su una nave al largo per proclamare la ‟missione in Iraq compiuta”. La portaerei di Berlusconi è la Intrepid, un valoroso residuato di guerra trasformato in museo, disarmato e ancorato per sempre a un molo di Manhattan (orari invernali 10-17, 12 dollari e 50 l’ingresso per comitive, bambini e anziani oltre i 65 anni).
Altri show e discorsi furono difficilmente catalogabili nell’album dei trionfi del bene, come il tributo al dittatore sud coreano Sygman Rhee o l’accoglienza solenne tributata nel 1957 al vietnamita presidente Ngo Dimh Diem. Sei anni più tardi, nel 1963, Diem fu assassinato a Saigon con l’imprimatur, se non addirittura la complicità o l’istigazione, di quella stessa Washington che lo aveva onorato e applaudito. Meno cruento, ma ora da molti rimpianto, fu il successo trionfale riservato a quel Jacques Chirac nel 1996 che appena sette anni più tardi, nel 2003, sarebbe stato dileggiato e insolentito come europeo calabrache e traditore.
Come e dove si collocherà Silvio Berlusconi in questa galleria di quasi 100 fra i notabili e i trascurabili sfilati sul podio della House of Representatives, dipenderà naturalmente e interamente da lui, dalla sua sensibilità e intelligenza. Rivedendo i discorsi che il serissimo Alcide De Gasperi pronunciò con successo vero, misurato poi nella fiducia e nei dollari per la ricostruzione, si vede che la difficoltà sta nel bilanciare la prevista piaggeria verso il ‟grande alleato americano” con la dignità nazionale e l’autorispetto, quindi nel non confondere i transitori, interessi elettorali di un partito con gli interessi permanenti di una nazione europea che tra poche settimane potrebbe cambiare tinteggiatura politica. Come potrebbe cambiare colore la stessa America. L’archivio dei molti e dimenticabili discorsi pronunciati sotto la cupola del Campidoglio, prova che i politicanti, le vanità e i partiti passano, ma le nazioni rimangono. Anche se mica sempre, ci ammonirebbe il re hawaiiano.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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