Michele Serra: I trecento anni di Sanremo

28 Febbraio 2006
Il Festival di Sanremo ha 56 anni, ma ne dimostra trecento. Sono i tre secoli (su per giù) che ci separano dal dopoguerra e dalla ormai lontana giovinezza della nostra società di massa, dalla massaia Pizzi e dalle maliarde in paillettes, dai tenoretti alla Claudio Villa e perfino dal moderno di Modugno e degli urlatori. E, soprattutto, da quando la televisione era una cosa vera, un occhio ingenuo e curioso spalancato sul Paese, cinegiornale popolare, teatro leggero, luci della ribalta, e il pubblico non era audience, erano "gentili telespettatori, buonasera".
Per questo bravi anzi bravissimi Panariello e le sue due ancelle (soprattutto la Victoria Cabello), che hanno cominciato a tirare la smisurata carretta di Sanremo senza poter contare su quello che fu il pubblico del Festival, gli italiani a casa, una volta tifosi dei cantanti e meravigliatissimi dalla minima scollatura o stonatura, oggi così tramortiti dal video sempiterno, così assuefatti a trasgressioni, emozioni, visioni, polemiche, litigi, "breaking news", che già riuscire a non farli addormentare è un trionfo. Tanto che, nella annuale e annosa ricerca di ospiti clamorosi (ma il direttore generale della Rai Meocci, con lodevole basso profilo democristiano, li ha definiti "meritevoli di grande attenzione"), è probabile che solo la presenza di Bin Laden potrebbe dare una avvertibile scossa allo share.
Così ognuno si concentra, accendendo l’ennesimo Sanremo, sui dettagli. Come il culto consacrato delle modelle, quest’anno molto più numerose, all’Ariston, di quei mazzi di fiori così nerboruti da sembrare bistecche, l’alfa e l’omega del kitsch sanremese che lo scenografo Ferretti ha meritoriamente oscurato. Modelle enormi, bellissime, mostrate a stuoli, a battaglioni, con abiti di spaventosa magnificenza, quasi tutte fidanzate di calciatori, evoluzioni transgeniche di quelle che una volta si chiamavano belle ragazze. Panariello, essendo veramente uno del popolo e credendo che il popolo esista ancora, le ha affrontate appunto come se fossero belle ragazze, con energica familiarità, come un corteggiatore rionale. Perché il segreto del Festival è la presunzione di ritenersi ancora, e per sempre, luogo popolare per definizione, come se gli italiani fischiassero ancora alle ragazze, e specialmente alle signorine straniere. Come se ci meritassimo ancora Alberto Sordi, che invece, come è noto, non ci meritiamo più da un pezzo.
Straordinaria, in questo senso, la visita remunerata di John Travolta vestito da pilota. L’accoglienza è stata festosissima e anche vagamente servile, proprio come quando arriva qui da noi, degnandosi, l’attore americano. Lo hanno vestito da pilota d’aeroplano e pagato parecchio, lui non ha fatto niente e detto perfino meno, salutava con la mano, sembrava Gary Cooper in via Veneto ma il problema è che non era Gary Cooper in via Veneto, era John Travolta al teatro Ariston, con ingresso sul retro in via Roma, e non so se l’avete mai vista via Roma a Sanremo...
Ma Panariello era assolutamente impeccabile nella parte dell’italiano ammirato e in fondo grato di potere incontrare una star di Hollywood, perché al Festival il canone è quello, il casalingo di Voghera che si eccita per la modella stangona, la sciampista di Frosinone che smania per la passerella del fusto americano. È un canone intubato da anni, tenuto in vita come genere televisivo perché niente più gli assomiglia, nella realtà reale, e non si sa se siamo peggiorati o migliorati, magari il casalingo di Voghera adesso rapina i furgoni postali, e la sciampista di Frosinone ama i pattinatori olimpici e schifa Travolta che deve sembrargli come a quelli della mia generazione sembrava Fernandel. Ma a Sanremo i cosiddetti mutamenti di costume arrivano, quando arrivano, sempre postumi, il bello del Festival è la compunta credenza che lì si incarni al meglio la tanto rimpianta mediocrità nazional-popolare, e infatti ogni tentato ammodernamento, specie di genere musicale, appare posticcio, e si preferisce gridare, da casa, "aridatece Bobby Solo".
Non basta uno scenografo premio Oscar che ha annerito quasi ogni rilievo visibile, creando un elegantissimo insieme di budelli che paiono corridoi di aeroporti, o camerini di show-room, per cambiare Sanremo o per ammazzarlo. Né gli sforzi dei pochi cantanti sintonizzati sugli ultimi due decenni. Per fortuna, lo dico a nome di noi passatisti sanremofili, l’insieme sonoro, per quanto la prima sera appaia sempre indistinto e assordante, è ancora e sempre dominato da quel vice-melodrammna straziante e impetuoso, con amanti disperati, peccatrici redente, tracolli esistenziali, che ha fatto la storia di Sanremo, e purtroppo anche la nostra.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …

La cattura

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di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia