Vittorio Zucconi: La rivoluzione della Mela

28 Marzo 2006
Diventai incompatibile col resto del mondo una sera di autunno a Parigi. Era il 1984, dalle parti di Boulevard Saint Michel, in uno di quei grandi negozi che sbraitano "high tech" con mobilio da sala operatoria e insopportabili musichette sintetiche. Ci ero entrato per comperare il mio primo personal computer. Non sapevo che ne sarei uscito due ore più tardi iscritto a una setta di fanatici. La confraternita del Codice Mac. I massoni della Mela. Per prepararmi all’acquisto, avevo comprato e studiato tutte le riviste patinate sui personal computer che le edicole offrissero, come si leggono le prove su strada delle auto nuove: sperando di intuire quale nuova macchina sia un bidone e quale un gioiello. Ora stavano tutti davanti a me, con i loro nomi che oggi sembrano archeologia informatica: Bull, Atari, Commodore, Zenith, Tandy, Ibm, oggetti di un futuro presente che il venditore accarezzava con dita da pianista per vantarne le virtù. Da un angolo del grande negozio venne verso di me una strana figura. Vestiva l’uniforme da professore universitario genere Hollywood anni Quaranta, calzoni di flanella sformati alle ginocchia sotto una giacca di tweed stazzonata e un cappellino alla Jacques Tati. ‟Excuse me”, mi parlò subito in inglese, perché non parlava altra lingua, ‟vedo che lei sta soffrendo per scegliere un personal computer”. Ovvio, là dentro vendevano pc, non salsicce. ‟Mi perdoni se m’intrometto e mi presento, sono un professore della Stanford University in California, sono a Parigi in vacanza con mia moglie”. E allora? ‟Le voglio raccontare una piccola storia. Lavoro nel dipartimento di fisica e di computer non so niente. Un paio di mesi or sono una azienda vicina al nostro campus, chiamata Apple Computers, ci ha recapitato una macchinetta che nessuno aveva mai visto prima, gratis, per provarla. I miei colleghi e io le abbiamo dato un’occhiata per divertimento e da allora tutti fanno la fila per adoperarla e ignorano le altre. La prego di credermi, non ho nessun interesse personale né commerciale, non lavoro per la Apple, ma mi permetta di darle un consiglio: si porti a casa questo qui e le giuro su mia moglie - la signora alle sue spalle lo guardò male - che questa sera lei lo userà come se lo avesse sempre avuto”. Due ore più tardi, nel mio ufficio di Repubblica a Parigi, scrivevo il primo degli infiniti pezzi che nei vent’anni successivi avrei battuto sulla tastiera del computer. Computer che avrei adorato, maledetto, comperato, aggiornato, buttato, giurato di non toccare mai più, puntualmente ricadendoci, perché nella setta del Codice Macintosh si può entrare, ma non se ne può uscire. Nel negozio di Parigi avevo incontrato senza saperlo quello che poi nel gergo mistico degli adoratori della Mela si sarebbe chiamato un "evangelista", cioè un missionario di quel piccolo, comico calcolatore elettronico che avrebbe cambiato per sempre il nostro modo di usare il computer, pur restando sempre una frazione minima, non più del tre per cento, nel mondo dominato da Bill Gates e dalla odiata e prepotente Chiesa (per noi) Microsoft. In quel 1984 la Apple esisteva da otto anni, da un primo aprile del 1976, il giorno dei pesci d’aprile scelto con umorismo goliardico dai fondatori, l’estroverso, esibizionista Steve Jobs e l’introverso Steve Wozniak, per annunciare la nascita della loro società. In quel giorno i due erano usciti con un prototipo di computer dal garage di Jobs ed erano riusciti a piazzare cinquanta ordini di vendita per quella cosa che fu battezzata con il nome del frutto che i due rosicchiavano in continuazione: una apple, una mela. Per tutti gli anni Settanta e per i primi anni Ottanta le prime due mele, la Mela 1 e la Mela 2, e poi una creatura chiamata Lisa avrebbero dominato il mercato nascente dei microcomputer. Fino all’uscita del Macintosh che è, pure quella, una varietà di mela asprigna buona soprattutto per le crostate, la macintosh apple. E proprio quel pomo sarebbe stato il frutto proibito che avrebbe indignato i guardiani dell’ortodossia informatica, devoti alle misteriose formulazioni da programmatore, e avrebbe fatto assaporare per primi, a noi cospiratori, un frutto proibito e delizioso chiamato GUI, Graphic User Interface. Così condannandoci alle gioie terribili della scomunica e della incompatibilità con il resto dell’universo informatico. Tutto quello che oggi è considerato normale e indispensabile - la carineria civettuola della grafica, il clic e il doppio clic, il mouse, i folder a foggia di minuscola cartellina, le piccole icone che basta attivare per entrare nella musica, nei video, in Internet, in un testo o nel foglio paghe e contributi dell’azienda - vennero dal lavoro di un gruppo di geni barbuti, capelloni e scamiciati (con una donna fra loro, Joanna) che nel 1976 cominciarono a lavorare al progetto ideologico prima che informatico, di un computer ‟for the rest of us”, per i non iniziati e per gli analfabeti. Nessuno dei bambini che oggi cliccano spensieratamente sotto lo sguardo invidioso e preoccupato di genitori imbranati conosce il nome di Burrel Smith, un impiegato della Apple talmente oscuro da essere all’epoca noto soltanto come ‟impiegato numero 282”, assunto per riparare i frequentissimi guasti dei calcolatori d’allora. Ma fu lui - con il resto dei barbudos di Cupertino, il paese dove sorge la Apple intitolato a San Giuseppe da Copertino - che riuscì a domare bits, bytes, kernel, circuiti e matherboard (fingo di sapere che cosa significhino queste parole) e tradurle in simboli e metafore comprensibili. Il Codice Mac, il sistema operativo che faceva funzionare la patetica macchinetta che acquistai nella Parigi dell’84, fu la stele di Rosetta che ci permise di tradurre e capire i segreti di un computer. Alla Ibm spetta la primogenitura del personal computer di massa, la scelta di spremere i colossi che occupavano interi piani di uffici dentro le dimensioni delle scatole da pizza. Ma è alla Apple con il suo Macintosh che va il merito di avere reso commestibile la pizza dentro la scatola, poi copiata da Microsoft con il suo Windows. Quello che i chierici del linguaggio macchina, gli amanuensi dell’autoexec. bat/config. sys/8088. dll/folders/iosperiamochemelacavo. exe e delle altre giaculatorie necessarie per dialogare con la scatola, chiamavano con disprezzo ‟il giocattolo” avvicinò il pc a quello che dovrebbe essere e ancora non è: un elettrodomestico che si accende, funziona e non pretende di essere corteggiato e rabbonito. E fu per gratitudine di cyberanalfabeta, sbalordito dalla facilità con la quale riuscii a utilizzare quel computer senza nessuna tragica curva di apprendimento, che da allora gli sono rimasto, nonostante tutte le delusioni d’amore, fedele. Ho acquistato praticamente tutti i modelli esitati dalla Apple, sperperando fortune: a volte incantevoli oggetti di design, altre catenacci. Dal primo Mac capace di scrivere soltanto su dischetti da 400mila bytes (questo, sul quale becchetto ora, ne contiene 100 milioni e viaggia a velocità trecento volte superiore) all’ultimo, magnifico portatile al titanio, ho sofferto le bizzarrie di una macchina che i suoi creatori strapazzavano, mentre si azzuffavano tra di loro, fino alla cacciata dello stesso fondatore Steve Jobs, perfetto paradigma di Adamo. Fui tra i primi a precipitarmi a comperare il proto-portatile Macintosh, un’orrida valigia pesante come il campionario di un piazzista di piastrelle, che ebbi l’infausta idea di trascinarmi all’Avana per un reportage. Anche dopo avere superato l’intensa e diffidente curiosità dei doganieri di Castro, persuasi che quella valigia di plastica e circuiti e tasti fosse un ordigno costruito dalla Cia per insidiare i trionfi della Revolucion, scoprii con orrore che le lampadine funerarie nella mia stanza all’Habana Hilton non permettevano di leggere lo schermo troppo buio del portatile. Dovetti lavorare con l’abat-jour poggiata sulle spalle a foggia di bazooka per illuminare con il fioco fascio di luce i morti cristalli liquidi dello schermetto. Ma per noi cospiratori del Codice Mac, l’essere minoranza eretica, privata della cornucopia di giochi e di programmi scritti esclusivamente per il Sant’Uffizio di Gates, compensava la condanna all’autismo della incompatibilità. Per lunghi anni le nostre mele erano come le monadi di Spinoza, sfere chiuse, incapaci di comunicare con il resto del mondo. Jobs, Wozniak e il presidente che i due avevano strappato alla Pepsi Cola avevano commesso il peccato luciferino della superbia. Avevano preteso di controllare sia il software che lo hardware, sia la macchina che i suoi programmi, come se una rete televisiva imponesse al consumatore di acquistare i televisori da essa fabbricati per guardare le sue trasmissioni. Non avevano voluto permettere a nessuno di produrre cloni e così si erano rinchiusi dentro il proprio convento. Tanto meglio per noi incompatibili. Nell’arrogante masochismo del settario ho consumato anni e nottate per tentare di convincere i miei Mac a comunicare con il resto del mondo, a collegarsi con i mainframe, i cervelli centrali delle nostre aziende o redazioni, leggere e utilizzare programmi concepiti per altre fedi. Ci confortava il pensiero che la nostra, respinta in massa da consumatori che passavano alla goffa imitazione creata dalla Microsoft fino a conquistare il 95 per cento del mercato mondiale, era condivisa dai maghi del video e dell’audio, dai geni degli effetti speciali hollywoodiani che creavano i loro cartoni animati e le loro magie. Neppure la coscienza che non fossero stati i Wozniak, i Jobs né l’impiegato numero 282 a inventare davvero quella idea delle icone, ma che fosse stata comperata dai laboratori della Xerox Parc in cambio di un pacchetto di azioni, ci turbava. Non eravamo noi gli incompatibili, era il resto del mondo a essere tagliato fuori da noi. Segretamente, molti di noi incompatibili tenevano un’amante nascosta, un portatile con processore Intel e sistema operativo Microsoft Windows, perché le catacombe possono essere scomode. Ma quando Steve Jobs, miracolosamente sopravvissuto a un cancro del pancreas e tornato alla guida della propria mela moribonda, ricominciò a sfornare oggetti di scintillante design, non ci offendemmo neppure alla vista di un assegno da 100 milioni, un’elemosina, staccato proprio da Gates per salvare la Apple e poter così fingere, davanti al Congresso americano, di non essere quello che è, un monopolista. Tra l’iPod, il lettore di file musicali e video, gli stupendi PowerBook al titanio portatili, la resurrezione era finalmente avvenuta. Poi l’annuncio ferale. Per continuare a esistere, la nostra Chiesa aveva abiurato. La nuova generazione 2006 dei portatili Mac era stata costretta ad adottare come proprio cervello i processori del nemico, gli Intel, la fornitrice principale dell’odiata Microsoft. Più pratici, più veloci, più avanzati. Migliori. Fu come se il Papa avesse annunciato l’adozione del Corano, per praticità. Windows, il nemico, presto invaderà anche il nostro convento. Addio Codice Mac, addio leggende di schiavi in rivolta orwelliana contro il Grande Fratello, come cantò il primo spot di lancio, appunto nel fatidico 1984. La guerra è stata vinta, ma dal Grande Fratello. Non sarò più incompatibile. Sarò, purtroppo, normale.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …