Gian Antonio Stella: Silvio, l'“adorabile gaffeur”

05 Aprile 2006
Maledette telecamere. È dura stavolta, per il Cavaliere che sulle telecamere ha costruito una fortuna, smentire d'aver chiamato ‟coglioni” quelli di sinistra. Ed è dura raccontare di aver parlato ‟con il sorriso sulle labbra”, di averci ‟scherzato sopra”, di aver fatto solo dell’”ironia”. Il filmato che lo mostra serio e teso è lì, online, alla portata di tutti gli internauti, al punto da aver costretto anche i tigì più ossequiosi a lasciar perdere l'oscuramento. Ahi ahi, sul più bello che era riuscito a piazzare con l'abolizione dell'Ici un nuovo sogno azzurro...
È la terza volta in pochi mesi, che viene chiamato a spiegare una sortita sbagliata da chi lo accusa di non avere capito la lezione di Strasburgo, quando gli scappò quella sventurata sciocchezza del ‟kapò” al tedesco Martin Schulz, aggravata dalla spiegazione che ‟era solo una battuta ironica” dovuta al fatto che ‟in Italia girano da anni storielle sull’Olocausto perché gli italiani sanno ridere anche di una tragedia”. La prima volta spinse 170 mila produttori finlandesi riuniti nell'Mtk a dire che non avrebbero ‟più comprato vini e olii italiani” perché aveva fatto lo spiritoso dicendo: ‟Per portare l'authority alimentare a Parma ho rispolverato le mie doti di playboy col presidente finlandese Tarja Halonen”. La seconda irritò Pechino dicendo che ‟nella Cina di Mao i comunisti non mangiavano i bambini, ma li bollivano per concimare i campi”. ‟Purtroppo c’è una generale mancanza di umorismo”, sospirò dopo le prime proteste. ‟Ho fatto una battuta, una ironia discutibile, non ho saputo trattenermi, ma su fatti veri”, disse dopo le seconde.
Giuliano Ferrara, che lo vezzeggia come ‟un adorabile gaffeur‟, un giorno glielo ha spiegato: ‟Il fatto è che non vuole proprio imparare il "wording", l’arte di scegliere le parole giuste, quella parola e nessun’altra, per esprimere nel modo dovuto alla comunità politica le sue intenzioni, le sue idee, le sue decisioni. Per un certo periodo questa è stata anche una sua forza, il crisma dell’antipolitica e della spontaneità contro il gergo professionale della classe dirigente più tradizionale, ma alla lunga, come abbiamo cercato di spiegargli con franchezza ormai fino alla noia, il gioco si fa perverso”. Bacchettata finale: ‟Leggere un testo è meglio che straparlare”. Ed è lì che anche gli amici più indulgenti sono perplessi: sarà anche vero, come dice Bonaiuti, che la stessa invettiva incriminata ieri viene quotidianamente scagliata contro il Cavaliere mille volte, su Internet e nelle piazze. Ma lui, come ha ricordato personalmente invitando Diego Della Valle a dargli del ‟lei” e non del ‟tu”, è il capo del governo. E come ha scritto Ferrara, ‟più si è importanti, più le parole hanno un peso”.
Questo è il punto. Le intercettazioni compiute per i motivi più diversi prima che Berlusconi entrasse in politica sono affari suoi. E la confidenza a Dell’Utri del capodanno 1986 sul bidone tirato a lui e a Craxi da due ragazze del ‟Drive In” (‟Poi finisce che non scopiamo più!”), lo sfogo contro i giornalisti del Giornale rei di aver attaccato Nicolazzi (‟son proprio dei figli di troia”) o la promessa all’amico Bettino di mettere in riga Montanelli (‟se fa le bizze lo prendo a calci in culo”) possono al massimo aiutare a capire che privatamente il Cavaliere è meno compunto di come voglia apparire. Niente scandali, per favore: alzi la mano chi con amici al telefono non si è mai fatto scappare una parolaccia o una barzelletta un po’ spinta.
Ma è nella veste di leader della destra italiana che il Cavaliere ha già dato più volte, ahinoi, il cattivo esempio. Come quando alla Camera, negli anni di veleni con la Lega, dopo un voto del Carroccio contro la missione in Albania, sibilò a Luigi Roscia che l’accusava di essere un ‟inciucione”: ‟Bravo tu, furbacchione. Bravi tutti. Votare con Rifondazione. Avete proprio delle facce di cazzo!”. Per non dire di quando liquidò un giudizio su di lui (‟dà il meglio solo quando ha un avversario”) di Veltroni come ‟una coglionata”. O quando, a Prodi che accusava le sue tivù di proporre modelli di comportamento ‟agli antipodi dei principi cristiani”, rispose: ‟Mi sono stancato di rispondere alle stronzate”.
Su tutto però, nelle cronache birichine di questi anni, resteranno tre momenti. Il primo fu raccontato da un giornalista certo non ostile al Cavaliere, Vittorio Feltri, e confermato parola per parola (‟Mi risulta sia andata esattamente così”) da Cossiga.
Eravamo nel febbraio del 2004, quelli dell’Udc erano incontentabili e lui sbottò con Luca Volonté: ‟Voi ex democristiani mi avete rotto il cazzo, me lo hai rotto tu e il tuo segretario Follini. Basta con la vecchia politica. Conosco i vostri metodi da irresponsabili. Fate favori di qua e di là e poi raccogliete voti, ma io vi denuncio, non ve la caverete a buon mercato, vi faccio a pezzi. Io le televisioni le so usare e le userò. Chiaro? Mi avete rotto i coglioni”.
Altrettanto elegante fu il modo in cui rispose, in una giornata di luglio, alla signora Anna Galli a Rimini. Lei, in mezzo a una piccola folla osannante, lo aveva invitato a ‟tornarsene a casa”, lui ricambiò così: ‟Lei ha una bella faccia da stronza”.
Parole non proprio ortodosse, in bocca a un premier. Come quelle sibilate, pochi giorni fa, a Genova, in risposta a un giovane che urlava ‟viva Mangano!” con riferimento allo stalliere mafioso di Arcore. Una provocazione che aveva spinto il Cavaliere a tornare sui suoi passi e affrontare il giovanotto così: ‟Non ti permettere. Io sono una persona perbene. E tu sei solo un coglione”. Una volta, a chi gli tirava le orecchie, rispose allargando le braccia: ‟Lo dico alla romana: quanno ce vo’ ce vo’”.

Gian Antonio Stella

Gian Antonio Stella è inviato ed editorialista del “Corriere della Sera”. Tra i suoi libri Schei, L’Orda, Negri, froci, giudei & co. e i romanzi Il Maestro magro, La bambina, …