Michele Serra: “Salvate la faccia”, c'è un'anima dietro

10 Aprile 2006
Come i famigerati "microfoni aperti" di Radio Radicale, come il censimento pubblico e spontaneo delle "cinque cose per le quale vale la pena vivere" indetto a suo tempo dal settimanale Cuore, questo Raduno delle Facce correva parecchi rischi. Quando si apre alla "gente" la porta della visibilità, spesso la smania di protagonismo rende stridule le voci, e congestionati i pensieri. è come se si percepisse lo sgomitare, il poco sereno affastellarsi di ansie da oscuramento, come se il mostro dell’anonimato inseguisse una folla spaventata e la costringesse a imbottigliarsi davanti alla prima via d’uscita. La Maratona dell’Identità è sempre in corso. Ma non bisogna mai fidarsi dei pregiudizi. Neppure di quelli ragionevoli. Un primo sguardo d’insieme sulle migliaia di facce autoritratte e autoconvocate arrivate a Repubblica trasmette una sensazione imprevista. La definirei: una sensazione di pacatezza. Di riflessione. Più che persone che chiedono di essere guardate, sono persone che stanno cercando di guardarsi. Le pose sopra le righe, i sorrisi istrionici, le espressioni forzate sono abbastanza rare. Prevale una serietà quasi accorata, di giovani donne e giovani uomini che sembrano avere perfettamente colto che non si tratta di un provino, non di una gara a chi riesce a farsi notare, ma di un piccolo censimento del sé. A questa prima impressione se ne accompagna un’altra, non meno significativa. Molte delle pose scelte si concentrano sul volto, cercano di definirlo in quanto tale, quasi avulso dal contesto. Ma molte altre si sforzano di ambientare il volto, o addirittura la persona intera, dentro interni o dentro esterni (sono parecchie le intrusioni della natura e degli spazi sociali, spiagge o marciapiedi, luoghi urbani o luoghi aperti, acque e erbe). L’idea di identità, quindi, non si accontenta del pur intenso riassunto costituito dalla faccia. Cerca riferimenti e appoggi, "spiegazioni" che non si esauriscono allo specchio, spesso producendo una percezione ariosa e quasi "panica" della persona, immersa negli elementi, o assorta in una stanza, o addirittura protetta e forse spiegata, sullo sfondo, da altre presenze umane. Se il volto è un marchio, diciamo il marchio dell’io, in molte immagini lo troviamo sorprendentemente disponibile a contaminarsi, a mettersi in relazione con luoghi e situazioni, come se non si bastasse. Detto questo, provo ad azzardare, spericolatamente, un’ipotesi di interpretazione generale del grande affresco d’assieme. Questa: non basta dire "narcisismo" per inquadrare lo sforzo di identità, e dunque, forse, per definire un’epoca, la nostra, che più di ogni altra sembra agitare la minaccia dell’anonimato, e dunque imporre l’ossessione dell’Io. Specie se per narcisismo intendiamo una sorta di sinonimo di vanità, di imposizione a tutti i costi del sé, di percorso "pubblicitario", queste fotografie, nella sterminata varietà consentita dai tanti mezzi di riproducibilità a disposizione, smentiscono l’idea di una società "narcisa". Se invece il narcisismo è lo sforzo, anche drammatico, anche vano, di capire meglio chi si è, quale persona ci tocca incarnare, in mezzo al confusissimo pulsare della massificazione, allora possiamo anche accettare (rivalutandola) la categoria del narcisismo - dell’Io che si specchia - come bussola per orientarsi nel labirintico concetto di "gente", o addirittura come suo antidoto. Ci si guarda, ci si interroga, ci si fotografa con affetto ma tutto sommato con discrezione, soprattutto per diradare la cappa soffocante dell’essere moltitudine, target di consumo, carne sociale vivisezionata dalle sonde del marketing, massa di manovra della politica e del potere. Ovvio che una galleria di autoritratti non può che essere fortissimamente individualistica, una somma di solitudini e di personalità in cerca d’autore. E però, qui, in queste fotografie, è come se l’individualismo perdesse i suoi connotati, non gradevoli, di auto-imposizione rissosa e disperata (vedi l’individualismo "eroico", il dandismo viziato della nuova sensibilità di destra), e rappresentasse piuttosto una riflessione meditata, e perfino gentile, sulla propria unicità e inconfondibilità: questo sono io, signore e signori, e sono così come sono. Grazie per avermi chiesto di partecipare. In fin dei conti ne esce sbriciolato (e già lo sapevamo, vero?) lo stesso concetto di "gente", oggi egemone fino alla nausea. Che la gente altro non sia che una molteplicità di persone, è un’ovvietà. Ma ogni volta che, come in questo caso, l’ovvietà viene smentita, e ci si ritrova in mezzo a un numero imponente di diversità, di individui ben definiti, si prova un sollievo speciale. Confermato, tra l’altro, da una varietà di fisionomie molto marcata. Per gioco, possiamo provare a ricondurre molti degli autoscattisti qui convenuti a questo o quel normotipo sociale (e televisivo, ahimè), e riconoscere, in mezzo al mucchio, qualche Fabiovolide (da Fabio Volo) o qualche Lucatonide (da Luca Toni) o Tariconide. E, tra le ragazze, quella grazia struccata e pensosa da film di Ozpetek o di Virzì. Ma si tratta, appunto, solo di un divertente azzardo fisiognomico e sociologico che subito si frantuma nell’inclassificabile, nel non collocabile. Forse aiuta, a creare questa varietà, la supponibile estraneità del nostro "target" (scusate) rispetto agli stilemi, indubbiamente unificanti, del protagonismo televisivo di massa. Se non ho visto male, non si riscontrano nei maschi sopracciglia rifilate o quella specie di fissità somatica (da espressione sorvegliata) da provino di reality-show, e soprattutto nelle femmine viene ancora più contraddetto l’obbligo di assomigliare alle dive e sottodive del piccolo schermo. "Ordinary People" per davvero, i nostri "modelli" rimandano a una fluidità sociale, ed estetica, che il claustrofobico mondo televisivo non contempla, tanto che viene voglia di immaginare che queste facce, ammesso che amino indugiare davanti allo specchio, non indugiano troppo spesso davanti al falso specchio del video, né vorrebbero ad esso conformarsi, per loro fortuna. Infine, vorrei tornare un attimo a una precedente osservazione, e cioè la notevole presenza di fotografie in esterno, nelle quali il tema "la mia faccia" si correla, ben più di quanto avvenga negli interni, alla luce del mondo. Anche se molte di queste fotografie sono "più posate" di quelle scattate in una stanza, l’effetto è che l’elemento umano cerca e trova il suo significato in maniera più distaccata, più collaterale, sovente non essendo neppure in primo piano, co-protagonista anziché mattatore. Queste fotografie mi sono particolarmente piaciute perché sdrammatizzano ulteriormente la questione della "presenza" e dell’identità. Confidano nell’appartenenza dell’io a un sistema - la natura - di molto sovrastante, affidano il racconto di sé all’abbandono del corpo (in qualche immagine anche solo della sua ombra) in spazi d’aria e di sole, d’acqua e di vegetazione. Lasciando da parte le piccolezze della New Age, mi sono venute in mente - non so quanto a proposito - diverse pagine di Tiziano Terzani sulla consolazione che l’Io può ottenere quando si dimentica di sé, e si perde nel mondo. Il mondo, nei pur piccoli riquadri in questione, balugina con parecchia convinzione soprattutto quando il volto o il corpo dell’autoritratto si appartano leggermente, e cedono il campo, o parte del campo. Paradossalmente, mi viene da dire che quanto più una personalità è forte, tanto meno avverte la necessità di zoomare sul sé. Ma non vorrei che questo suonasse come un giudizio sulle immagini arrivate a migliaia, non sono una giuria, per carità, solo un osservatore. E per giunta - doverosa confessione - molto restio a farmi fotografare, complessivamente nemico della fotografia, la cui nitida folgorazione dell’attimo (della ruga, dell’occhiata, dell’espressione incontrollata) mi spaventa quasi come quelle popolazioni tribali sicure che l’immagine riprodotta sia un furto d’anima. Grazie dunque alle anime che hanno accettato di regalarsi allo sguardo pubblico, inviando i loro autoritratti. Un gesto di generosità: darsi agli altri senza avere paura di rimanere a corto di se stessi.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …