Umberto Galimberti: Decifrare il vuoto del volto. La spasmodica ricerca di sé

10 Aprile 2006
Io un po' li capisco quanti, invitati da ‟Repubblica” a fornire per via telematica una loro fotografia per avere un'immagine degli italiani, in poche ore hanno intasato con migliaia di foto la redazione del quotidiano. Una risposta così massiccia e immediata lascia intendere una spasmodica ricerca di sé, un bisogno insopprimibile di dar forma a quel vuoto che per ciascuno di noi è il nostro volto.
A nessuno, infatti, è concessa l'immagine fedele del proprio volto. La mia vista non può vedere quel viso che sono e che mi esprime. Anche con lo specchio non raggiungo lo scopo, perché l'immagine riflessa non è sovrapponibile ma simmetrica: la destra cioè diventa la sinistra e siccome le due parti non sono perfettamente identiche, l'espressione che vedo riflessa non è la mia espressione.
Quel che la Bibbia a più riprese dice di Dio: "Non ti farai immagine alcuna" (Deuteronomio, 4, 15) può benissimo essere applicato al nostro volto, sempre al di là della sua immagine, sempre diverso. Il dramma di Narciso e la sua tragica conclusione dicono, in altra cultura e in altro modo, l'impossibilità di afferrare la nostra immagine.
La nostra immagine, infatti, è qualcosa che noi costruiamo, come lascia intendere la parola "faccia", dal latino "facies" che rinvia a "facio", verbo che dice qualcosa da costruire. È una costruzione che compiamo con lo sguardo, per cui la "faccia" è anche "viso", dal latino "visus", da cui il francese "visage" e il tedesco "Gesicht", dove evidenti sono le allusioni all'atto del vedere.
Guardando il volto di un uomo, solo una nostra supposizione ci fa ritenere che a lui siano noti i tratti che noi vediamo. In realtà per ciascuno di noi il volto è il vuoto del nostro corpo spalancato sul mondo. Forse per questo il greco "stoma" e il latino "os", oltre che "viso", significano "bocca", quindi "apertura", "voragine".
Se il mio volto è il vuoto del mio corpo non mi sorprende che così tante persone si dispongano davanti a un telefonino o a una macchina fotografica digitale per ottenere l'immagine che riempia quel vuoto. E poi, dopo averla trasferita sul computer, la manipolino per renderla verosimile all'immagine che si sono fatti di sé e che non sempre corrisponde all'immagine resa dalla fotografia, perché questa, nell'istante incontrollabile di un flash, può rubarmi un'espressione che non riconosco come mia, dopo avermi già sottratto la gestualità che tanto racconta del mio modo d'essere.
Ma anche la riproduzione fotografica e la sua pubblicazione sul giornale non placa la mia ansia che vuole riempire il vuoto del mio volto nella spasmodica ricerca della mia fisionomia, perché quel me stesso che cercavo nella fotografia mi è reso da quella cosa che vedo e che divento ogni volta che cesso di abitarmi per cogliermi nella forma dell'esteriorità. La fotografia, infatti, mi sorprende dall'esterno e mi spaventa quando, raggiungendomi impreparato, mi cede quel suo segreto che è il mio volto colto dal di fuori.
Siamo irrimediabilmente nelle mani degli altri che con il loro riconoscimento costruiscono la nostra fisionomia, che la psicologia e la filosofia chiamano "identità". Quel che siamo sono gli altri a dircelo. Ed è solo la nostra amicizia o inimicizia con gli altri a farci accettare o rifiutare quell'aspetto che noi siamo e che il nostro volto esprime come nostra assoluta impotenza.
Fotografare il nostro volto è un tentativo di reperirlo, e in questa ricerca sta forse la segreta essenza dell'uomo, che però non può essere affidata alla fotografia, ma alla risposta che ci giunge dallo sguardo dell'altro, perché, come ci ricorda Platone: "Se uno, con la parte migliore del suo occhio (la pupilla), guarda la parte migliore dell'occhio dell'altro, vede se stesso".

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …