Vittorio Zucconi. Usa. Il battaglione delle mutilate che commuove l’America

20 Aprile 2006
Il braccio di Dawn Halfaker poggia mollemente su uno sgabello di plastica mentre lei fa gli esercizi, l’orologino placcato oro al polso, la fede al dito, le unghie ben curate e laccate di rosso, perchè Dawn all’aspetto ci tiene e oggi il marito viene a trovarla con la loro bambina di sei anni.
Quando si alza dal tavolo dove ha finito di sollevare i pesi nell’ospedale militare Walter Reed di Washington e finisce la doccia, la signora si prepara come ogni donna, una passata di rossetto, una spolverata di fondo tinta, il rimmel, i capelli, la gonna e poi la camicetta, già, la camicetta, il problema.
Per indossarla, la signora deve prima infilarsi il braccio di plastica che aveva lasciato sullo sgabello. ‟Il mio è rimasto a Bagdad, dentro la jeep Humvee saltata in aria” dice il tenente di fanteria Dawn Halfaker ‟ma questo è anche più bello del mio”. E oggi riesce a sorridere, lei che nel 2004 aveva coperto tutti gli specchi, come una piccola Greta Garbo, per non vedersi mutilata dalla guerra, per il terrore di essere divenuta una mezza donna, come quelle 370 sue colleghe che hanno lasciato pezzi del proprio corpo in Iraq e sono le prime amputate e mutilate di guerra nella storia dell’esercito americano.
Nel carnaio iracheno che ha consumato già 3 mila e quattro cento vite di uomini e di donne (35 uccise) americani e ne ha colpite nella carne più di 17 mila, la storia del tenente Halfaker e delle sue compagne che hanno lasciato gambe, braccia, mani, seni, che chirurghi ortopedici e chirurghi plastici ora tentano di ricostruire o di sostituire, sarebbe soltanto una piccola tragedia dentro una tragedia immensa, se non fosse per la triste novità di questo battesimo di sangue per le nuove donne guerriere. Con le loro mine improvvisate, i lancia granate, i razzi, le autobombe, gli agguati, gli insorti e i terroristi in Iraq hanno risolto a modo loro il dilemma antico e irrisolto sulle donne in combattimento, hanno tagliato con il bisturi dei chirurghi da campo che hanno amputato i mozziconi rimasti alle vittime il nodo ideologico che ancora vieterebbe, nell’esercito americano, alle soldatesse di combattere in prima linea come serventi di artiglieria, carristi o truppe d’assalto. ‟La granata che ha fatto saltare la mia jeep Humvee - dice con disarmante ovvietà la donna con un braccio solo, che era la capitana della squadra di basket femminile a West Point - non si è fermata per chiedere se fossimo maschi e femmine”.
Caddero infermiere e ausiliarie su altri fronti, ma questa è la prima generazione di donne in prima linea. Le piazze del mondo traboccano di lugubri monumenti a ‟mutilati e invalidi” e di lugubri monumenti e il guerriero ferito, amputato, è vittima ed eroe accettato nella realtà e nella iconografia guerriera. Ma questa delle donne che hanno lasciato pezzi di loro stesse al fronte è una specie nuova, una coraggiosa e malinconica sorellanza di giovani signore, sono tutte ventenni o trentenni, come Dawn che ha 24 anni, che per scelta di vita e di professione, non per malattia o per incidente, hanno dovuto ricostruirsi un corpo e quindi un’identità. ‟Se per un maschio l’amputazione è un ferita alla propria virilità, una menomazione al proprio ego guerriero, per una femmina che facilmente identifica sè stessa con il proprio corpo secondo i canoni culturali dominanti della bellezza, della proporzione, della seduzione, perdere le due gambe, non avere più le braccia per manifestare la primordiale affettività di un abbraccio all’amante o al figlio è forse ancora più tormentoso”, spiega al ‟Washington Post” una delle psicologhe che assistono il battaglione di amputate.
Forse, dice la psicologa. Non ci sono precedenti ai quali rifarsi, perchè non esistono studi e trattati che spieghino come affrontare il dramma di una madre in uniforme che improvvisamente scopre di non essere più in grado di preparare il sandwich con il burro di noccioline per la figlia che va a scuola. ‟Sono ancora una mamma, ora che non posso neppure preparare un panino per la mia bambina?” si chiede Juanita Wilson, sergente dei Marines saltata su una mina a Bakuba, dove ha lasciato due braccia e la domanda sembra assurda soltanto a chi non conosce il valore della quotidinaità.
Nel reparto rieducazione del Walter Reed Hospital, al confine fra Washington e il Maryland, le donne solidarizzano con le donne. Chi ha ancora le braccia spazzola i capelli di chi non le ha più, chi riesce a camminare, porta da mangiare a chi ancora arranca sui mozziconi, chi ha conosciuto la ricostruzione del seno incoraggia quelle che ancora attendono il chirurgo plastico, tentando di scherzare. ‟Pensa, Kathy, te lo rifaranno bello e turgido come a un’attrice e senza spendere un centesimo”. Tutte piangevano quando Dawn, l’ex atleta di West Point, esce per la prima volta dall’ospedale con il marito, tutta agghindata e bella, con il suo braccio di plastica nella manica lunga e i medicinali con le siringhe nascosti nello zainetto.
Ci sono 250 mila donne nelle Forze Armate Usa, su un milione e mezzo in uniforme e 30 mila al fronte in Iraq, ma non come truppe d’assalto, perchè la resistenza dei repubblicani conservatori vieta alle femminucce di battersi sul campo, perchè sono più deboli fisicamente, perchè non hanno l’istinto di aggressione maschile, perchè nell’immaginario ideologico dei maschi la donna deve essere mamma, nutrice, infermiera, non killer professionale. Per questo, mentre vengono ferite, mutilate, uccise esattamente come i loro commilitoni maschi, la storia delle 370 donne dimezzate non merita attenzione e lacrime di stato. Le donne della quale si parlò ampiamente furono stereotipi negativi, la sventurata generalessa che comandava, in teoria, il carcere delle torture o la Lynn England, condannata al carcere per quella foto oscena, o la soldatina del West Virginia salvata come la classica pulzella nei guai. Sono l’armata invisibile, le donne che non sognano di esportare l’America, ma di poter fare un sandwich ai loro figli.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …