Umberto Galimberti: Vedere senza esser visti. Una superbia divina

04 Maggio 2006
Platone dice che ‟se uno, con la parte migliore del suo occhio (la pupilla) guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede se stesso”. Questo riconoscimento, reso possibile dal reciproco incontro degli sguardi, oggi è in qualche modo impedito dall’uso sempre più diffuso degli occhiali da sole, grazie ai quali, chi li porta può vedere senza essere visto. Una prerogativa questa che gli uomini hanno sempre temuto, e come tutte le cose temute e scongiurate, hanno espulso dalle pratiche della loro vita comunitaria e attribuito alla divinità che, col suo occhio, vede senza essere vista. Nel primo libro della Bibbia leggiamo che Adamo ed Eva si aggiravano nel Paradiso terrestre in ingenua nudità, ma non appena gustarono il pomo dell’albero proibito ‟s’accorsero di essere nudi e ne provarono vergogna” (Genesi 3,7). È una vergogna che non nasce dalla nudità del loro corpo, ma dallo sguardo di Dio che li ‟mette a nudo”. Erano nudi, ma solo dopo quello sguardo ‟divennero” nudi e perciò si nascosero e fuggirono. Ma che succede quando un occhio vede senza essere visto? Succede che chi è visto viene spogliato della sua soggettività e ridotto a ‟oggetto” dello spettacolo altrui, viene negato come persona e ridotto a cosa. Ne è un esempio l’episodio di Jole, narrato da Erodoto e ripreso da Hegel nelle pagine della sua Estetica dedicate al pudore. Candaule, re dei Lidi, offre la sua sposa nuda alla vista di Gige, suo alabardiere, per mostrargli che è la più bella donna del mondo. Ma Jole, la sposa, vedendo Gige sgusciare dalla porta, ne prova vergogna. L’indomani lo convoca e, per riparare l’onta, gli offre un’alternativa: o uccide il re e si impossessa di lei e del regno, oppure muore. Con la morte dell’alabardiere, la regina ritiene di poter spegnere lo sguardo che l’ha guardata senza essere visto, privandola della soggettività e riducendola a oggetto del suo spettacolo. In alternativa, facendo accedere l’alabardiere al suo talamo, la regina ritiene di poter recuperare la soggettività consentendo al proprio corpo di rivestirsi della reciprocità degli sguardi. Nella reciprocità, infatti, non c’è più il pericolo dell’oggettivazione della persona, del suo decadimento a cosa, della sua alienazione laggiù, in quello sguardo nascosto che segretamente la deruba, esponendola senza difesa. Se queste sono le dinamiche sottese allo sguardo di chi vede senza essere visto, portare gli occhiali da sole, anche quando il sole non c’è, non è un atto innocente. Sotto, inosservato, lavora un esercizio di potenza che degrada le persone a oggetti nel mondo, a cose tra le cose, perché il non poter vedere chi mi guarda disintegra la reciprocità della relazione. Coperti dagli occhiali da sole, gli occhi dell’altro sono su di me senza distanza, e insieme mi tengono a distanza. La presenza su di me dello sguardo nascosto stabilisce infatti una distanza che mi separa da lui e insieme la sensazione di essere vulnerabile, in uno spazio da cui non posso evadere, in cui sono senza difesa, in breve ‟sono visto”. La posizione di ‟guardato”, genera la vergogna. Questa parola che deriva da ‟vereor gognam”, temo la gogna, è quanto vuol ottenere chi guarda senza essere visto, e cioè la mia riduzione a oggetto in un mondo da cui lo sguardo dell’altro mi ha espropriato, come capita agli innamorati quando sono visti. Il mondo delle loro effusioni non è più il loro mondo, perché è diventato lo spettacolo dello sguardo altrui. Nel guardare senza essere visti non c’è solo un esercizio di potenza ma una vera e propria violenza che, oltre a oggettivarmi, mi espropria del mio mondo. Il mondo che poc’anzi era mio defluisce infatti verso l’altro e, in questa fuga senza fine, io mi perdo nella mia esteriorità. In questa esteriorità, scrive Sartre, è la mia alienazione, perché chi mi guarda senza poter essere guardato nega le mie relazioni col mondo e dispiega le sue. Gli occhiali da sole sottendono anche il desiderio di mascherare il proprio aspetto, di non offrirlo nella naturalezza dei suoi tratti. La maschera infatti dissimula il volto, e, quando degrada a trucco, di cui gli occhiali da sole sono una componente, lo altera per ingannare e fuorviare lo sguardo dell’altro. In tutto ciò c’è una spaventosa fuga da sé che fa dire ad ogni donna e a ogni uomo mascherato dai suoi occhiali neri o fumé: ‟Io sono un altro”. Che tradotto significa: io non sono più me stesso, ma il mio simulacro. Tentare di comunicare con chi nega il suo sguardo rischia di arrestarsi di fronte all’incomunicabilità di quella donna o di quell’uomo con se stessi, e chi prova a decifrarne il messaggio coglie solo una negazione, un nascondersi, non solo all’altro ma anche a sé. Se però dovessimo cogliere nello sguardo che si nega dietro gli occhiali da sole l’invocazione a una decifrazione, andiamogli incontro, e, con tutto il garbo necessario a chi sa di mettere in crisi un’identità, chiediamogli per prima di cosa di togliersi gli occhiali da sole.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …