Michele Serra: Commissione difesa. La pacifista e il trasformista

09 Giugno 2006
La pessima vicenda della bocciatura di Lidia Menapace alla presidenza della commissione Difesa del Senato contiene una verità politica molto dura da metabolizzare per la sinistra italiana.
Menapace è persona di alto profilo culturale e umano, e dal curriculum specchiato. Una intellettuale pacifista, ex partigiana, distante anni luce da traffici e compromessi di potere, esempio lampante della differenza femminile applicata alla politica.
Menapace è la Differenza incarnata. Il suo imprevisto e vittorioso competitor, Sergio De Gregorio, eletto con un colpo di mano dell´opposizione favorito (pare) anche da lobby militari, è l´esatto contrario. È l´Uguale per definizione. Maschio, affarista, amico di tutti e dunque di nessuno, tatticamente cinico, a lungo vagolante tra i due schieramenti alla ricerca della collocazione per lui più proficua, ricettore di voti un tanto al chilo, pare la maschera aggiornata della politica di vecchio e basso profilo. Quella stessa politica dello scambio e del compromesso che è la palude nella quale ogni governo, e specialmente questo, rischia di impantanarsi.
Sulla carta, dunque, lo scontro era tra persone di grana incomparabile. Ma – ecco la questione – è stato proprio il calibro di Menapace, il suo stesso essere coerente con i suoi princìpi e non calcolatrice (fino a dichiarare in un´intervista, lei candidata a presiedere la commissione Difesa, che considera le Frecce tricolori un inutile spreco) a condurla, insieme al governo, dritta nelle fauci della sconfitta.
La verità dura da digerire, dunque, è questa: la politica non è un banco di prova della propria purezza (a volte presunta, questa volta incontestabile), e forse neanche della propria ragione. La politica è la ricerca, faticosissima, del massimo grado possibile di ragione in un contesto spesso irragionevole, ostile alle innovazioni, diffidente dei presupposti nobili e trasparenti. Non sarà «merda e sangue», come ebbe a dire autobiograficamente Rino Formica, la politica, ma non è neanche il foglio immacolato sul quale scrivere indisturbati, in bella grafia, il proprio nitido rifare il mondo.
Candidare una pacifista di lungo corso alla presidenza della commissione Difesa può soddisfare il legittimo desiderio di nitore ideale di una parte non piccola dell´elettorato di sinistra, ma rischia di trasformare un percorso già irto di ostacoli in una salita insormontabile. E spiana la strada, specularmente, ai peggiori istinti di conservazione di un pezzo delle istituzioni, nonché del Paese reale – le forze armate – non riducibili, tra l´altro, a un banale coacervo di interessi industriali. Detta bruscamente: candidare Menapace significa spalancare le porte a De Gregorio, perché ogni azzardo politico, anche il più nobile, deve prevedere una reazione uguale e contraria.
La discussione sul cosiddetto "estremismo", per dirla meglio sul delicatissimo equilibrio tra istanze di cambiamento radicale e possibilità concreta di metterle in pratica, è vecchia come la sinistra. La sua soluzione è "matematicamente" impossibile, nel senso che non esiste una formula immutabile che consenta di stabilire il punto esatto nel quale si è ragionevoli senza diventare cinici, e si è coraggiosi senza diventare suicidi. È un tentare, un provarci, un dannarsi l´anima per cercare di portare a casa un risultato stimabile senza svendere le tre o quattro cose in cui si crede.
Il pericolo supremo, per chi si definisce in genere "riformista" e tiene dunque conto della parzialità e dell´imperfezione del suo agire politico, è svendere i princìpi e diventare un mero trafficante di compromessi. Ma il pericolo contrapposto è il narcisismo di chi preferisce comunque una sconfitta in purezza a una vittoria ammaccata. Lidia Menapace, in quel contesto e in questo Paese, era un pezzo di cristallo in mezzo ai cingoli, e i cocci ahimè lo dimostrano. Il gommoso De Gregorio è l´antivirus sgradevole, ma prevedibile, contro l´immissione di un corpo estraneo in un organismo nettamente refrattario, per sua natura, al pacifismo militante.
Per non essere frainteso: questo non significa che la scelta politica "giusta" sia un nefasto ibrido tra Menapace e De Gregorio, persone per altro non ibridizzabili, per fortuna di Menapace e per sfortuna di De Gregorio. Questo significa che persone come Menapace, preziose per la cultura della sinistra e per la coscienza del Paese, non vanno spese (anzi, sperperate) nel gioco pericoloso dell´azzardo ideologico. In quel gioco molta sinistra ha già perduto molto del suo immenso lavorio ideale e umano, e sempre innescando il circolo vizioso che dalle speranze infrante porta poi alla delusione e quindi al cinismo (se l´Italia pullula di ex rivoluzionari riconvertiti in cortigiani, vorrà pur dire qualcosa).
Da Danilo Dolci a don Zeno a don Ciotti, la storia sociale italiana ha conosciuto molti modi e molti luoghi per dispiegare la potenza di idee pulite, innovative e ben funzionanti, e forse proprio la loro marginalità rispetto alla politica politicante è stato ciò che le ha mantenute intatte. C´è qualcosa di triste nella constatazione che la politica non sia (più) il miglior humus per fare attecchire i semi migliori. Ma c´è qualcosa di goffo, e pure di vanitoso, nel voler costringere la politica a essere ciò che non è (più). Forse tornerà a esserlo, grazie a nuove generazioni, nuove promesse e nuovi sconquassi. Ma non può essere la commissione Difesa del Senato la levatrice di un nuovo evo.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …