Vittorio Zucconi: Mondiali 2006. Gli Usa, i giovani e il soccer

16 Giugno 2006
La banda dello "spacone" americano arriva con la grancassa e i sacchi a pelo dove dormono da tre giorni marinati nel loro sudore, perché i loro pochi dollari non valgono molto nella vecchia e ricca Europa che rapina i tifosi. Fanno molta tenerezza.
È bello, grazie al calcio, per una volta provare tenerezza per gli Americani. Guidata dal loro leader, dal ragazzo bum bum di Buffalo, Mark Spacone, si prepara a invadere il piccolo stadio di Kaiserslautern, ma non per cambiare regime, per cambiare la nostra idea sbagliata che negli Usa il calcio non esista e, dopo lo show di Usa ‘94, a nessuno importi più nulla.
‟Mi dispiacerebbe battere proprio la squadra di mio nonno - dice lo Spacone - ma oggi sono un americano e voglio vederci battere gli Italiani”. Noi siamo dalla parte del nonno.
Mistero sempre affrontato e mai davvero spiegato, il rapporto fra una "sport crazy nation" come gli Stati Uniti, pazza per tutto ciò che è sport, ma apparentemente refrattaria al gioco che fa impazzire il resto del mondo diventa, anno dopo anno, Mondiale dopo Mondiale, sempre un po´ meno mistero. Mark Spacone, fondatore, animatore e finanziatore coi propri soldi della "Spacone´s Army" (il vizietto militaresco rimane) è uno dei 20 mila uomini e donne che hanno sparecchiato nelle prime sei ore di vendita via Internet tutti i biglietti messi a disposizione dalla ingorda Fifa e dai suoi sponsor rapaci. In 22 mila avevano riempito di entusiasmo, e poi di amarezza, lo stadio di Gelsenkirchen davanti alla disfatta contro i Cechi. Domani sera, tra i soldati veri, raccolti dalla vicina base Nato di Ramstein e questi soldati inermi venuti da casa con le guance dipinte a stelle e strisce, l´Italia dei tifosi volubili e irritabili, giocherà in trasferta.
Che il calcio sia, e da tempo, lo sport più praticato negli Stati Uniti fino a 13 anni è un fatto provato eppure ancora in parte sconosciuto, tranne che a noi genitori di bambini che dalla prima elementare fino alle soglie del liceo hanno dovuto accompagnare i figli in furgoni ingombri di marmocchi, di maglie sudate e di parastinchi i figli vagando per sobborghi punteggiati da magnifici campi d´erba tenera come neppure Milano si è mai sognata, San Siro inclusa. Ma che allo stadio dell´esordio fossero più numerosi gli americani venuti da un altro continente rispetto ai Cechi arrivati comodamente in "autobahn" dal vicino confine è stata una sorpresa anche per chi ha visto crescere il "soccer" (il nome football era già stato preso da un altro sport che si pratica pochissimo con il "foot", con il piede) anno dopo anno.
I tecnici che hanno visto la prima partita del Team USA deplorano lo stordimento e l´involuzione tecnica di una squadra che appena quattro anni or sono aveva umiliato il presuntuoso Portogallo. Ma degli americani che perdono, non mi fido mai, perché sono infinitamente più pericolosi e tenaci degli americani che vincono e gli occhietti di Bruce Arena, il paesano di Broccolino che aveva rianimato la nazionale Usa, sembrano oggi quelli di un Rocky Balboa, stretti nella determinazione in quella sua faccia da pugile che ne ha prese troppe. ‟La nostra è diventata una mission contro l´Italia, non più una partita”, diceva ieri dalla conferenza stampa quotidiana nel ritiro di Amburgo, dove i giocatori ogni giorno parlano liberamente con i giornalisti, sapendo che la comunicazione col pubblico è un dovere professionale. Come la storia e la cronaca dimostrano, gli americani in missione possono anche perdere, ma non perdono mai senza far male.
Se i nostri giocano per salvare la faccia del calcio italiano, quelli giocano per salvare l´orgoglio dei ragazzini e della ragazzine in mutandoni sempre troppo grandi per la loro taglia che primavera invadono i sobborghi rincorrendo un pallone. Sono 3 mila quelli arrivati da Denver, otto mila dal minuscolo Rhode Island, con un budget di mille dollari, 800 euro per un mese, e se 22 mila tifosi in tutto sembrano pochi, sono certamente più degli italiani che si sciropparono il viaggio in Corea. Il pullman della squadra USA è l´unico senza nessun contrassegno e nessuna identificazione perché il Dipartimento di Stato e la Cia hanno raccomandato l´anonimità soprattutto in quella Amburgo dalle quale partì un certo Mohammed Atta.
Ma questa coraggiosa armata di fans non ha un canto, un inno, una marcetta da intonare, qualcosa che somigli allo "You´ll never walk alone", non sarete mai soli, dei fans del Liverpool o al "Grazie Roma" rovesciato sull´Olimpico, soltanto quello IU-ES-EEE scandito quando le cose vanno bene. Un tentativo di portare allo stadio un contingente di majorettes, di ragazze pom pom, per sculettare come avviene in ogni stadio americano è stato respinto con sdegno dai gufi della Fifa. E l´incubo del terrorismo, unito all´ansia perenne di essere più che mai "the ugly American", il goffo e maldestro turista americano sta tenendo i tifosi attruppati fra di loro, ammucchiati nei loro autobus, renitenti a unirsi alle bande di bevitori di birra con le maglie di altre squadre che dopo le partite fraternizzano nella berciante solidarietà alcolica.
Sarebbe diverso se a quei 22 mila che vagano tra i Länder per seguire gli "yanks" del pallone avessero potuto aggiungersi gli immigrati senza documenti. Ma se escono dalla nazione non rientrano più e neppure un Mondiale vale un vita. Il solo gruppo consistente di tifosi americani che abbia finora incrociato nelle strade e che ho riconosciuto più dall´accento che dai simboli, mi ha proposto un elenco di nomi strettamente anglo-italiani, un Damico (senza apostrofo), un Capone (senza antenati famosi) una Hardy, due fratelli Mays con la madre Beth, una "soccer mom" fino in fondo, tutti accomunati dalla speranza di vincerne almeno una e di non farsi troppo notare per strada.
Purtroppo anche l´incubo fasullo dell´antiamericanismo dilagante nella Vecchia Europa si è aggiunto alla delusione della prima legnata sul campo. L´albergo del Team Usa ha creato attorno una zona di sicurezza e di isolamento che sta rendendo la vita dura ai residenti di Amburgo e genera crea quel clima di lieve paranoia che circonda, semza giustificazioni politiche o poliziesche, le spedizione dei team italiani. I venditori di paccottiglia prevista per i fans venuti da lontano sono in bancarotta.
Neppure le telefonate di incoraggiamento fatte da Bush, che un sondaggio pubblicato da un blog americano sul calcio risulta amato da appena sei dei 23 giocatori di Arena, possono cambiare quel senso di isolamento e di solitudine che i ragazzi in divisa bianco rosso blu oggi si portano addosso. Soltanto nel "cocoon", dentro il guscio dello stadio, domani sera gli americani potranno essere americani, suonare le loro grancasse, far casino, sfogare il nazionalismo inoffensivo che il Mondiale incoraggia e incanala. L´"Armata Spacone" potrà scatenarsi, emigrati italiani in America contro emigrati in Germania e darci una piccola lezione, speriamo non sul campo. Ricordarci, che il calcio negli Usa è semplicemente il contrario esatto del calcio in Italia: uno sport praticato da milioni e guardato da migliaia. Cioè, per farla corta, ancora uno sport.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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