Vittorio Zucconi: Il mondiale felice della nuova Germania

20 Giugno 2006
C’è una parola strana che circola oggi in Germania, una parola che farebbe piangere Goethe e inorridire Werther. La ripetono commentatori, telecronisti, bevitori di birra, soldati e persino il panettiere che l’ha evocata: ‟Optimismus”. D’incanto, nella terra del presente opaco e delle coalizioni troppo grosse e grasse, tutti sono ottimisti e amano quel pasticcere di Goppingen, Juergen Klinsmann, che fino a dieci giorni or sono detestavano. Ieri mattina, i giocatori della Nazionale hanno osato addirittura videotelefonare dal ritiro di Berlino ai militari della Bundeswehr a Kabul, quattro ragazzoni in divisa un po’ intimiditi, un po’ straniti, sorpresi dalla scoperta di essere anche loro amati, e finalmente Deutsche Soldaten senza niente da farsi perdonare. Era partito adagio adagio questo Fussball Weltmeisterschaft 2006 da una città come Monaco, che è sempre stata l’altra Germania, quella "meridionale", diversa, che i tedeschi del Brandeburgo, della Sassonia, della Prussia, del Palatinato raccontano con un sorriso di affettuoso compatimento, ach, diese Bayerischen, ah questi benedetti bavaresi. Dopo la miserabile figura contro la sempre detestata Italia in quella amichevole che aveva fatto credere a Lippi di avere reinventato la ruota, i legnosi giovanotti assemblati da Klinsmann, addestrato da giovane nel negozio del padre e della madre a fare strudel e pagnotte al cumino, erano stati licenziati come un corpo estraneo e imbarazzante.
Quale nazionale tedesca poteva mai essere questa, si chiedevano nella solita valle della depressione romantica, allenata via fax e posta elettronica da uno che vive negli sterminati sobborghi di Los Angeles, che fa il promotore di sport, che ha sposato una cinese, la signora Debbie Chin, ha due figli "gemischte", di etnia meticcia come direbbero gli stupidi, e che aveva finito la carriera miseramente, giocando nella squadra professionale di Los Angeles, i Galaxy, con lo pseudonimo ridicolo di Jay Goppingen, come il paese di origine, per non sporcare il cognome di un campione del mondo.
Poi il piccolo miracolo del calcio, l’esecrato sport, circo, business, chiamatelo come preferite, che sa compiere questi strani prodigi. Basta una vittoria per 4 a 2 contro la marginale Costa Rica che pure gli impiomba due gol, e un’altra contro la squallida Polonia di questi tempi acciuffata nel recupero, perché si arrivi alla prima partita vera di oggi contro l’Ecuador, in un girone italianamente casereccio, con i boulevard di Berlino traboccanti di oltre 150 mila fans. Disperati pronti a pagare fino a duemila euro ai bagarini per andare all’Olympia Stadion. E Klinsmann "der Amerikaner" come lo definivano con disprezzo, non essendo l’America amatissima in questa Vecchia Europa ricambiata di disprezzo dalla Washington del momento, venisse implorato dai Soldaten in Afghanistan, dal milionario del Chelsea che somiglia a Matt Damon e fa la squadra, Ballack, dal predecessore Voeller, dalla stampa sportiva anche qui pronta a ogni capriola, a restare anche dopo la Weltmeister 2006, dopo la Coppa.
E non è soltanto la deliziosa, infantile volubilità del pallone ad avere trasformato una nazionale di modeste speranze in un Brasile mitteleuropeo che dovrebbe marciare vittorioso, se non fino alla vittoria, almeno fino a uno scontro con l’Inghilterra, con la quale rimane sempre qualche prurito da grattare. In una nazione che da due secoli si riunifica e si sbrana periodicamente, che a ogni generazione garantisce al resto dell’Europa di non essere più quella di una volta ma vive ingabbiata tra i segni di una volta, "die Mannschaft", la squadra è zattera di identità più preziosa di quanto sia per noi quella maglia azzurra che il marketing politico e poi gli scandali sono riusciti a smagliare. La Berlino dove le trombe dei tifosi ti accompagnano nella notte come se già avessero vinto, come la Germania che ho deliberatamente attraversato in auto dal sud ovest di Kaiserslauten fino a Berlino per assaporare il monotono languore delle sue campagne e superare una frontiera che non c’è più, rimane una terra unificata da cose che sono sparite e da altre che non ci sono ancora. Ricca, apparentemente serena, politicamente costretta a coalizzarsi, casalinga e rassicurante come la figura e il sorriso della Kanzlerin Angela Merkel, spesso al fianco del gelido ma onnipresente Kaiser dei Mondiali, Beckenbauer, eppure irrisolta. Se l’Italia resta una nazione irrimediabilmente divisa, così la Germania appare a chi la rivede come una nazione forzatamente unita.
Per questo la Mannschaft, la Nazionale, deve vincere, perché anche il calcio, guidato dal bel ragazzo venuto dal vecchio Est comunista, Ballack, serve a riempire quella sorta di vuoto che il passato ha scavato nel cuore e che si avverte soprattutto in questa Berlino che troppi architetti, troppo bravi, con troppi soldi e troppa libertà, hanno coperto di opere d’arte pensate per le Biennali, più che per la gente che non riesce a riempirle. In una capitale che affianca la Ben Gurion Strasse, la strada del fondatore di Israele, alla Von Karajan Strasse, la strada intitolata al direttore d’orchestra prediletto da Hitler con tessera del partito nazista predata in segno di massimo onore, che presenta come sfondo al devastante memoriale della Shoah costruito da Eisenmann anche per i 56 mila ebrei berlinesi trucidati con lo slogan voluto dal Kaiser Franz per il mondiale, ‟diventiamo amici”, la finzione del calcio diventa un filo di realtà. È un pezzetto di quel futuro che i tedeschi devono reinventarsi ogni giorno, per non essere risucchiati dal loro passato.
Non oso pensare al collasso di malinconia tardo romantica che una sconfitta contro l’Ecuador, o un’eliminazione negli scontri diretti, spalancherebbe sotto i piedi di una Germania che "der Amerikaner" rinazionalizzato ha rifatto di testa propria. Se c’è una nazione per la quale farò il tifo nel caso l’Italia fosse eliminata, sarà la Germania. Perché ha un allenatore con figli "meticci" dunque amati, ha una squadra di onesti scarponi che non sanno giocare in difesa, un calcio professionale che ha saputo ripulirsi il sangue dalle porcherie che vi circolavano senza invocare garantismi pelosi, e ha scelto per la finale lo stesso stadio, imbellettato, nel quale Adolf Hitler guardò il figlio di una ‟razza inferiore” umiliare la sua "Herrenrasse", i suoi ariani di razza signora.
Ci vuole più che coraggio per sfidare così i propri demoni, che stanno sempre sotto la pelle della memoria, magari quando Beckenbauer siede accanto alla consorte dell’Imperatore giapponese, la principessa Michiko per la partita del Giappone mentre l’altezza Imperiale tentava di fotografare il campo accorgendosi con un sorrisino nobilmente imbarazzato di avere dimenticato il tappo sull’obbiettivo, come una qualsiasi turista sbadata. Per mettere un Kaiser accanto alla casata del Tenno, nello stadio che fu del Reich per le glorie del Patto d’Acciaio, ci vuole ciò di cui la Germania, e con essa tutti noi Europei, abbiamo oggi disperatamente bisogno. Ci vuole Optimismus.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …