Vittorio Zucconi: L’autunno di Fidel

02 Agosto 2006
‟Sarà l’Onnipotente a decidere quando Fidel Castro se ne andrà” dice brusco il presidente George Bush a Radio Mambi, una stazione radio di cubani ringhiosamente anti castristi a Miami. Era lunedì scorso, appena ieri l’altro. In quel momento, ancora il mondo e i seicentomila cubani che ora danzano in estasi la salsa e la conga per le strade abbrustolite della Florida non sapevano quello che forse Bush invece già sapeva. E cioè che dopo mezzo secolo di attentati, invasioni, embarghi, anatemi, propaganda, minacce, missili, marielitos, gusanos, balseros e miliardi di dollari buttati in pasto agli squali del Caribe, sarebbe stato l’Onnipotente a fare quello che la Cia, il Pentagono e la Casa Bianca non sono mai riusciti a fare: piegare Fidel Castro e costringerlo a lasciare, forse temporaneamente, forse definitivamente, la propria isola stupenda, amara e malinconica.
Se davvero questa sua misteriosa ‟emorragia intestinale” e il complicato intervento chirurgico che l’ha fermata saranno l’ultima battaglia perduta per il patriarca arrivato a due settimane dall’80esimo compleanno il 13 agosto, e dunque saranno il tempo, la malattia, la natura a deporlo, Fidel Castro passerà alla storia come il ‟lìder” dell’unico regime "latino" che l’America - e gli otto presidenti che lo hanno avuto come una ‟spina nella carne”, secondo la definizione del senatore Fullbright - non è riuscita a cambiare. Sarà il terribile bambino barbuto che ha saputo per mezzo secolo irridere all’imperatore, davanti a lui nudo. Nessun’altra nazione dell’emisfero americano, nessun dittatore dentro la sfera di controllo nord americana, era mai riuscito a farsi beffe dell’America a 90 miglia di mare dalla Florida, da una terra che gli Stati Uniti, le sue mafie legittime o criminali, guardavano come una semplice appendice dell’impero, dopo averne espulso gli Spagnoli nel 1898 con il pretesto dell’affondamento della corazzata Maine nel porto dell’Habana.
L’ultimo, storico dispetto del ‟caballo”, come i cubani lo avevano soprannominato, dello stallone ingrigito e malato, sarebbe quello di morire per morte naturale. Avendo ceduto lui, secondo la costituzione cubana e secondo quello che aveva già annunciato tre settimane dopo la presa dell’Havana nel 1959, il potere al fratello Raul, ‟uno molto più radicale di me”.
Nessuno crede davvero, non a Washington, non tra i cubani in festa a Miami, e probabilmente neppure tra i cubani a Cuba che si fingono tranquilli ma che da anni e segretamente detestano l’‟hermano” Raul, il Beria del regime, che il castrismo possa sopravvivere a Castro. Da pochi giorni, da quando le voci su un’ennesima grave malattia di Fidel avevano ripreso a circolare, a Washington l’Amministrazione e il Congresso avevano varato una disposizione per facilitare la transizione di Cuba alla democrazia, cioè a chiunque non sia un Castro, con finanziamenti per 80 milioni di dollari destinati a formare partiti in vista di future elezioni. Le notizie di un deterioramento della salute del vecchio ‟cavallo” sembravano questa volta più serie della continua disinformazione catastrofista diffusa dalle radio dei cubani in esilio, dalla lobby anti-castrista della Cuban American Foundation, dalla nuova pasionaria della controrivoluzione, la deputata Ileana Ros-Lehtinen, una emigrata ex cattolica convertita alla Scientologia. Dopo avere lavorato per decenni al rovesciamento del socialismo cubano e aver sognato la fine di Castro, ora la Presidenza Bush e i suoi apostoli del ‟regime change”, tutto vogliono meno che una transizione violenta a Cuba, uno scatenamento di appetiti e di vendette per contendersi le proprietà espropriate 40 anni or sono. Un mini Iraq caraibico a 90 miglia da Key West e dalla Florida costringerebbe Washington a intervenire per ricostruire una nazione e una società civile, impresa che sta tragicamente fallendo in Medio Oriente.
Non è dunque più Castro che fa paura a Bush, è il dopo Castro. Quella spina nel fianco, quella repubblica della banane e della canna da zucchero che aveva osato sfidare il Golia del Grande Nord, faceva segretamente e politicamente molto comodo alle amministrazioni americane. Da quando i ribelli di Fidel e del ‟Che” avevano assalito la caserma della Moncada prima di scendere trionfalmente dalla Sierra verso le città della costa e la capitale, Cuba, e il suo incontenibile predicatore di ‟revoluciones” anti imperialiste, erano state la manifestazione tangibile e prossima di quella ‟minaccia comunista” che l’America vedeva come l’estensione dell’Unione Sovietica nel cortile di casa. Dal primo progetto di invasione e di ‟liberazione”, come tutte le invasioni devono essere descritte, concepito da Eisenhower e recepito da Kennedy che finì nella tragica pochade della Baia dei Porci, alla vendicativa decisione presa da George Bush di limitare il numero di voli charter umanitari da Miami e di rimesse di emigranti, per lisciare l’elettorato cubano della Florida così indispensabile per vincere la Casa Bianca, Castro è stato il nemico perfetto.
Inoffensivo, dopo la eliminazione dei missili sovietici e il collasso della stessa Urss, logorroico, retorico, illiberale, a tratti ormai la caricatura di sé stesso, applaudito dai nuovi leader populisti eletti in America Latina, a Castro e alla sua Cuba potevano essere attribuite ogni sorta di sinistre manovre, dal traffico della droga alla complicità con il terrorismo islamista, passando per l’ultima, più recente accusa, quella di essere il nuovo paradiso del turismo sessuale e del traffico di esseri umani. Senza mai l’onere della prova, essendo per definizione lui e il suo regime, ‟comunisti”, e quindi falsi e bugiardi.
Ma il Castro sdentato e la Cuba ormai di fatto sciolta da un embargo farsa, aggirato ogni giorno da investimenti europei, canadesi, cinesi, addirittura americani attraverso società israeliane di facciata e scosso ora anche dalla scoperta di possibili vasti giacimenti di petrolio fatti dalla spagnola Repsol a nord ovest dell’Havana, non erano più una minaccia, ma uno sberleffo. Non più da missili nucleari sovietici, o da rivoluzioni da esportare in Nicaragua, a Grenada, in Bolivia o in Angola, dovevano guardarsi i signori dell’impero accanto, ma dall’arma della disperazione, dalle miserevoli armate di fuggiaschi a bordo di gusci di balsa, di camere d’aria, di vecchi autocarri trasformati in fuori bordo, che periodicamente Castro lanciava, per costringere la Coast Guard a rimandarli indietro, smentendo la mistica della ‟porta aperta”. Ora, il futuro è tornato, come dice l’indispettito George Bush, nelle mani di Dio, e l’America dei cubani non avrà l’acre soddisfazione di impiccare Castro e di assistere alla sollevazione contro di lui di una piccola, struggente, amara nazione condannata ancora una volta da quella maledizione che il poeta messicano Octavio Paz leggeva nella tragedia del Centramerica e del Caribe: ‟Sempre troppo lontano da Dio, sempre troppo vicino all’America”.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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