Umberto Galimberti: Tra calma e burrasca le metafore della vita

28 Agosto 2006
Lontano nei tempi, prima ancora che si contrapponessero come l’alba e la sera del giorno, Oriente e Occidente avevano in comune un simbolo dove l’uomo, tra il cielo e la terra, si pensava come uno dei tre. Gli altri due erano Urano e Gea nella tradizione greca, Purusha e Prakriti nella tradizione indiana, Tien e Ti nella tradizione cinese. In tutte queste regioni del mondo la formula era: «Il cielo copre, la terra sostiene». Del mare nulla, la sua inquietudine e la sua instabilità, anche quando, ingannevole, appare nella sua calma trasognata, non ne facevano una metafora idonea alla stabilità cosmica, anche se il ritmo dell’onda sulla spiaggia poteva dire che la regolarità del ritorno e non l’agitarsi degli uomini sulla terra, era la vera scansione del tempo. Profonde lontananze di luce dischiudono orizzonti al di là dell’orizzonte, e perciò il mare si fa simbolo del "senza-confine" che impaurisce chi abita terre protette, intimi focolari, passioni quiete che nessuna gioia ha mai fatto danzare, alcun dolore inabissato. Il mare conosce la danza e l’abisso. Ma chi sono coloro che hanno abbastanza cuore per questo? I signori della terra? Gli uomini di carattere? No, la superficie del mare è troppo pura per i loro occhi, e loro sono troppo sgraziati e avidi di territorio per prendere il largo con la semplicità del navigante che incoraggia il suo cuore. E prende a conoscere come il piacere si intreccia con il dolore, la maledizione con la benedizione, la luce del giorno con il buio della notte, e come tutte le cose sono nel mare incatenate, intrecciate, innamorate senza una visibile distinzione, perché l’abisso, che tutte le cose sottende, vuole che così si ami il mondo. Le linee del mare sono infatti, la "profondità" dell’abisso e il "senza-confine" dell’orizzonte, due dimensioni che inquietano l’uomo del territorio incapace di vivere senza i segni del mondo, ma non il navigante che non dice al dolore "sparisci" e all’amore "calmati". A differenza dell’uomo del territorio che vuole il mondo, il navigante anela a cose più lontane, più abissali, più indistinte nei loro indiscernibili confini, e il suo cuore, come il mare, vuole se stesso, come l’onda, vuole il ritorno, come il vento, vuole tempesta e, come l’abisso, vuole profondità. In questo senso il mare è la metafora del cuore come la terra lo è dell’anima razionale, perché a differenza dell’anima, che da quando è nata è sempre in cerca di protezione e di salvezza, nel cuore c’è quella voglia di terre non ancora scoperte che solo il mare può concedere a chi non teme il "senza-confine" dischiuso da quegli spazi senza meta dove neppure il tempo conosce altra segnalazione se non quella offerta dalla luce e dal buio: la luce di mezzogiorno che cancella tutte le ombre e il buio della notte dove la luna diffonde il suo raggio solo per ingannare con le ombre. Il senso del mondo si capovolge e l’incalcolabile, che sulla terra incute timore, diventa metafora del cuore costretto a non fidarsi né della calma trasognata dell’acqua, né del suo burrascoso inabissarsi ed elevarsi, quando la costa è scomparsa e lo spazio e il tempo appaiono nel loro assoluto. Qui e solo qui, non dietro la siepe dell’ermo colle, appare quanto è spaventoso l’infinito, e con l’infinito quanto è spaventosa la libertà sognata prima che l’ultima catena ci sciogliesse dalla terra, ora che non esiste più terra alcuna, ma solo il più assetato degli elementi, il più affamato, il più pauroso, il più misterioso, il mare. Tagliati gli ormeggi l’orizzonte si dilata, il suo dilatarsi lo abolisce come orizzonte, come punto di riferimento, come incontro della terra col suo cielo. E perciò Nietzsche può dire: «Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo lasciato i ponti alle nostre spalle, e non è tutto! Abbiamo lasciato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà. E non esiste più terra alcuna!». La nostalgia è l’anelito del ritorno (nostos, in greco), quell’anelito che spinge l’Ulisse omerico verso Itaca, sua terra, sua patria, dove l’eroe, ritrovato il talamo intagliato in un olivo ben piantato sulla terra, giacerà per alcune notti, ma solo per comunicare a Penelope, che per dieci anni l’aveva atteso, che dovrà abbandonare di nuovo la terra, che a lui appare solo come luogo di protezione e luogo di riparo. Dovrà riprendere il mare l’eroe omerico, sospinto da quella voglia di conoscere che accompagnerà l’Ulisse dantesco fino alle colonne d’Ercole che segnano i confini del mondo. Sono confini che l’Occidente di allora oltrepasserà con Cristoforo Colombo per conoscere certo, ma soprattutto per arricchirsi e dominare. E mentre in Europa si celebra con dovizia di scritti e di canti l’Umanesimo, oltrepassato il mare che separa il vecchio dal nuovo continente, l’uomo occidentale incontra gli uomini di quelle terre senza riconoscerli come propri simili e li stermina. Che prenda avvio da qui la simbolica della nostra cultura che proclama i diritti umani e non li riconosce al di là del mare? E qui il pensiero va a quelle coste antistanti le nostre, dove i disperati della terra mettono in gioco per mare la loro vita, per avere una speranza di vita. Ancora il mare, oltrepassato per conoscere, oltrepassato per dominare, oltrepassato per vivere, se il naufragio non inghiotte l’anelito di conoscenza, di dominio, di vita. «Se in me - scrive ancora Nietzsche - è quella voglia di cercare, che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel piacere è un piacere di navigante: se mai gridai giubilante: "La costa scomparve"; ecco anche la mia ultima catena è caduta, il senza-fine mugghia intorno a me laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo, orsù! coraggio! vecchio cuore!». Allontanandolo dal proprio cuore, perché metafora dell’instabile e dell’inquietante, gli uomini della stabilità, gli occidentali, hanno fatto del mare la pozzanghera della terra dividendo le onde in acque territoriali per delimitare anche sull’instabile le loro proprietà, cioè i segni delle loro divisioni, l’odio cieco dei loro cuori esangui, e per questo cattivi. E così il mare ha smesso di offrire terre sconosciute al navigante che incoraggia il suo cuore, perché il compito che gli uomini gli hanno assegnato è quello di delimitare terre nemiche. Ulisse non avrebbe mai sospettato che la forza del mare, immensa nei suoi flutti, potesse essere superata dalla violenza dei cuori invincibili negli odi.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …