“La democrazia da noi non risolverebbe i vostri problemi”. Un colloquio con ‘Ala al-Aswani

07 Settembre 2006
Semplificando, ‘Ala Al-Aswani (‟Il cognome significa che mio padre veniva da Assuan, profondo sud dell’Egitto, mia madre invece era di Alexandria”) si presenterebbe così. Lavoro? ‟Dentista per necessità — ho fatto la specializzazione in America, tre anni all’università dell’Illinois — ma la mia vita è scrivere libri: proprio come per mio padre, che era avvocato. Come lui mi ha insegnato prima di morire 19 anni — non si mangia con la letteratura”. Autore preferito? ‟Dostoevskij: mondo si divide fra chi l’ha letto e chi no. Ti svela la natura umana”. Musicista? ‟Vivaldi”. Cantante? ‟Edith Piaf: sono una specie di esperto, al Cairo ho studiato alla scuola francese”. Religione: ‟Musulmana”. Bandiera politica? ‟La democrazia: è l’inizio della soluzione di ogni problema”. Film della vita? ‟Un borghese piccolo piccolo: il padre pieno d’odio prima vendica l’omicidio del figlio, e alla fine capisce che può uccidere ancora. Dice molto della mente di un terrorista di oggi”. Il leader che ammira? ‟Nasrallah. il capo del ‟Partito di Dio” libanese. Gli rimprovero di flirtare troppo con la Siria. Ma del resto, anche il ‟Che” si faceva finanziare dai sovietici, no?”. La sua opera di successo? ‟Palazzo Yacoubian. Dal 2002, quando è uscito, è il libro più venduto nel mondo arabo. Tra le 100 e le 150 mila copie. In Francia sono
quota 45 mila, in Italia, con 15 mila, è nella hit. Harper Collins è uscita ora con l’edizione in inglese. Ci sono scrittori, in Egitto, che mi ucciderebbero per questo successo (ride. Poi si fa più serio, ndr). Anche mio padre fu premiato nel ‘72, quando i riconoscimenti ufficiali non erano frutto della corruzione che qui da noi pervade tutto”.
Già, semplificando. Mentre siamo seduti nel suo soggiorno (‟La casa che fu di mio padre, eravamo legatissimi”) nel cuore del Cairo, sui divanetti rosa antico, entra la colf velata: ‟Nel popolo è comune, non ha connotazioni religiose: per strada si vedono ragazze velate baciare i fidanzati. No, mia moglie (è la seconda, ha due bimbe con lei e un figlio 21enne dalla prima, ndr) non lo porta”. Capisci bene che quest’uomo di 49 anni — che predica la democrazia in ogni saggio politico che scrive per la stampa d’opposizione (‟Uno al mese, devo occuparmi dei romanzi”) e poi si dilunga in spiegazioni su come ‟non è corretto che Israele abbia l’atomica e si dica all’iran di rinunciarvi” — non puoi semplificarlo. Lui stesso ti dice, parafrasando Flaubert, ‟Palazzo Yacoubian c’est moi”. E se il suo libro è una complessa metafora dell’Egitto attuale, dcl suo sbriciolamento sociale e fisico, della corruzione che
corrode, dell’assalto dei nuovi ricchi, al-Aswani ne è la complessa incarnazione.

Non chiamatela Puttana
‟I miei personaggi sono parte di me. Li amo tutti: la letteratura ha un aspetto che definirei ‟cristiano”, nel senso che cerca di capire le ragioni di tutti, mai di giudicare, a differenza delle altre due religioni monoteiste. Ho avuto la stessa educazione di Zaki bey”. Il borghese Zaki bey, protagonista centrale del romanzo, che ama le donne e le canzoni di (indovinate?) Edith Piaf. ‟Condivido il suo modo di vedere la vita, l’apertura mentale. Ho conosciuto nelle strade del Cairo la disperazione di ragazze come Buthayna”. La bella Buthayna, la star femminile del libro, che deve accettare ‟compromessi” con i datori di lavoro per il bene della famiglia e sposerà Zaki. ‟Ma non chiamatela puttana: non solo rifiuta di tradire chi l’ha protetta, ma ho visto donne della buona società che fanno l’amore solo col marito ma loro sì che sono prostitute”. Soprattutto ha amato Taha, il figlio del portiere che sogna di fare il poliziotto e sposare Buthayna ma finirà kamikaze. ‟Ho provato la stessa frustrazione. Sono un borghese, ma quando sbattevo contro i muri degli editori per pubblicare i miei scritti mi sentivo come lui”. E poi ti dice degli altri personaggi, Hatin Rashid, giornalista e omosessuale, di Hagg ‘Azzam, uomo d’affari chiacchierato che compra l’elezione e una seconda moglie che soddisfi le sue voglie senili. Di loro, e dei vari politici e trafficoni con pochi scrupoli, legati nella finzione letteraria dal fatto di vivere in un edificio un tempo elegante e ora, come il Paese, in crisi.
Il palazzo vero, art déco, costruito nel ‘34 da un architetto italiano per un committente armeno, con tanto di indirizzo nel Cairo del commercio, è circondato da palazzi d’epoca assediati dalla polvere e dalla sovrappopolazione. Oggi al 60 piano c’è la Cambridge University Press, al 2° uno stilista per le spose e all0 un dentista. Funziona ancora l’ascensore Schindier del romanzo. Fuori, le vetrine con le camicie di Dino Gucci. Il romanzo è diventato ora anche un film, la produzione più ricca (‟Ma io ho venduto i diritti a poco: non ci so fare”) della storia dell’Egitto: 4 milioni di dollari. ‟Al 1° piano c’era lo studio legale di papà. Dopo la sua morte ci ho tenuto per un po’ il mio gabinetto dentistico”. I condomini, uscito il suo libro-scandalo, le hanno fatto causa. ‟L’amministratore ha saputo dai giornali del budget cinematografico. E hanno chiesto i diritti ‟commerciali” per l’uso del nome”. Sembra materia per il seguito. ‟Non ci sarà una ‟parte Il”: un editore libanese mi ha anche offerto un mucchio di soldi. Ma non è una cosa seria. Ora ho appena finito il mio nuovo romanzo: l’ho ambientato a Chicago — è anche il titolo — città in cui ho vissuto tre anni. E sottovalutata, piena di vita culturale, ma anche di problemi, come sanno bene i miei personaggi, americani ed egiziani immigrati, stritolati dalla macchina del capitalismo e dell’integrazione”.
Vivere insieme pacificamente è, dappertutto, un problema ancora tutto da risolvere. ‟Anche l’Italia fa parte di questo enorme ‟Palazzo Yacoubian”. Il problema principale è qui da noi, la risposta ai problemi dell’immigrazione verrebbe di conseguenza. La soluzione è la democrazia. Il regime imperialista americano, spesso l’intero Occidente, per decenni hanno sostenuto i dittatori nel mondo arabo per il proprio interesse. Allora che succede? Che la gente scappa, perché la vita è impossibile, non c’è lavoro. E la maggior parte dei vostri immigrati è semianalfabeta, non conosce la lingua, è senza niente. Ed è facile che cerchino una comunità che li protegga, e che diventino aggressivi contro l’Occidente. Con i più acculturati non succede. Così il cerchio si chiude tornando al capitalismo: negli States, ci sono 5-7 milioni di persone senza documenti. Tutti lo sanno, ma nessuno dice niente. Il sistema economico li vuole: se a Chicago vai in un ristorante del centro, dietro la porta della cucina ci sono 5-6 messicani, egiziani, indiani che non parlano una parola d’inglese e prendono in 10 lo stipendio di un solo americano. Questo è il punto: la democrazia, in Egitto e nel resto del mondo arabo, cambierebbe tutto”.
Passeggiamo per le strade di Garden City, il quartiere dove abita: ‟Era periferia verde, ora è travolto dal caos del centro”. L’odore del pesce arrostito sui marciapiedi pervade ogni cosa, le taverne dove si fuma la shisha (il narghilé) si susseguono, la spazzatura si spande sull’asfalto. Veli colorati coprono i capelli delle ragazze. È qui il popolo dei suoi libri. Taha, il suo personaggio, è povero e viene umiliato e torturato dai poliziotti. E sceglie la strada del fanatismo religioso. ‟Lasci perdere la propaganda anti-islamica, non è per la religione che si diventa terroristi”, dice ‘Ala al-Aswani. ‟E non è neanche la povertà: si può essere povero e mantenere la propria dignità. Sono un medico, e so che uno dei rischi è confondere fra malattie e complicazioni. La malattia, qui da noi, è la dittatura. Il resto, terrorismo, corruzione, sono complicazioni. È l’ingiustizia la chiave di tutto. Avevo un amico che voleva fare il giudice: a Legge era il più bravo. Ma era figlio di meccanico: è stato escluso. Mi disse: odio l’Egitto, se potessi fare male a questo Paese, lo farei. Trasformarlo in un terrorista sarebbe stato facilissimo. La cosa interessante è che quelli che marginalizzano i poveri sono loro stessi di origine umile. E che rinnegando l’origine umile è come se la cancellassero”.

La catastrofe saudita
Parla di sensazioni che ha provato in prima persona. ‟Questo è il mio secondo romanzo. Per 15 anni ho avuto problemi a pubblicare con le case editrici statali. Palazzo Yacoubian è stato rifiutato tre volte, prima di trovare questo editore, un attivista per i diritti civili”. Alla fine, però, la censura non l’ha fermato. ‟La censura esiste ufficialmente solo per la stampa dello Stato. Per i privati è più sottile. Fatta di stroncature sui giornali governativi, per esempio. Sono stato invitato a un talk show in una tv pubblica:
un attimo prima di andare in onda, l’altro ospite, un intellettuale, mi ha chiesto se ero pronto. ‟Per cosa?”, ho chiesto. ‟A difenderti”. L’avevano chiamato chiedendo di preparare un attacco a freddo, per farmi perdere le staffe in diretta. ‟La tua immagine sarebbe rovinata”. Lo speaker stava già annunciando: prepariamoci a giudicare il nostro scrittore di successo. Me ne sono andato”.
L’ingiustizia è il sintomo, teorizza Aswani. La malattia è la dittatura. E la religione, allora? ‟La religione è uno strumento. O meglio, il problema non è l’islam, ma la sua interpretazione. In Egitto siamo sempre stati aperti. Siamo stati i primi, con iracheni e libanesi, ad aprire alle donne la cultura, il Parlamento, il governo. La lotta di indipendenza dagli inglesi è stata una lotta secolare. Poi però Sadat volle usare la religione contro l’opposizione, che era allora la sinistra. Così ha messo nella costituzione che l’Egitto è un Paese islamico. Nello stesso momento, milioni di egiziani hanno cominciato ad andare a lavorare nel Golfo, per il petrolio. Sono tornati col denaro ma anche con l’interpretazione saudita dell’islam. Quella di al-Qaeda. Una catastrofe. Ora intere zone sono abitate da questi reduci. Le donne la subiscono. Ma il regime l’ha sostenuta. E comoda: non contempla diritti politici individuali, non considera la democrazia un valore. E se per esempio uno non ha lavoro, lo attribuisce al fatto che non prega 5 volte al giorno, che beve alcolici. Tutto, tranne che accusare il regime”. Il contrario del ‟piove governo ladro”.
La democrazia, per al-Aswani, sarebbe l’unica cura. Però ci sono gli integralisti pronti a prendere il potere. ‟I Fratelli musulmani sono usati come uno spauracchio dal regime. Praticare l’islam non significa essere Fratelli musulmani. Dalla nascita della setta, nel ‘26, ogni volta che c’è stata una vera apertura democratica, hanno perso la presa sulla ‟strada araba”‟. Come la mettiamo con il successo di Hamas in Palestina? ‟Non ha vinto per sé, ma per la corruzione degli altri leader. Con la democrazia, la religione farebbe un passo indietro”. Ragionevole. Ma sarebbe troppo semplice. Ed ecco che la complessità di chi ha creato Palazzo Yacoubian riaffiora. ‟Nasrallah non è un terrorista. Al-Qaeda sì, Hamas è un’organizzazione che compie atti terroristici, Hezbollah no, sono milizie in lotta di resistenza. Penso anche che Israele non voglia davvero la pace. Perché uccidere donne, bambini? Invece vedo che tutti, a cominciare da Kofi Annan, sono dispiaciuti soprattutto per i soldati rapiti, peraltro in un atto di guerra. Sembra sempre che Israele abbia il diritto di far ciò che vuole col sostegno dell’America. A Tel Aviv servirebbero un paio di guerre perdute”. La sua ricetta per far vivere tutti insieme nel ‟palazzo Medio Oriente”? ‟La pace in un unico Stato secolare, come un tempo. La convivenza di due Stati è fragile, pericolosa. No, bisogna che arabi ed ebrei vivano insieme. Democraticamente”. E lei crede davvero che sia possibile? ‟Sì”.

‘Ala al-Aswani

‘Ala al-Aswani è nato al Cairo nel 1957. Di professione dentista, è stato uno dei membri fondatori del movimento egiziano per la democrazia Kifaya e ha partecipato attivamente alla Rivoluzione …