Umberto Galimberti: Scienza e politica patto d’alleanza

07 Settembre 2006
La scienza ha una sua etica? E nel caso ne disponesse quest’etica si fa carico della condizione umana? In che termini e in quale orizzonte di senso? La domanda è molto importante soprattutto oggi in cui constatiamo che nessuna etica, tra quelle formulate in Occidente nel corso della sua storia, è all’altezza dello sviluppo scientifico e dei suoi imprevedibili effetti, che si collocano in quella zona di confine dove il progresso può non essere in grado di scongiurare la catastrofe e dove l’uomo teme che le sorti della terra, dominate dalla potenza scientifica, possano sfuggire al controllo che l’uomo è in grado di esercitare sulla propria potenza. Nella cultura occidentale sono state elaborate fondamentalmente tre etiche: 1. L’etica cristiana, che si limita a considerare la correttezza della coscienza e la sua buona intenzione, per cui se le mie azioni hanno conseguenze disastrose, se non avevo coscienza o intenzione, non ho fatto nulla che mi sia moralmente imputabile. Esattamente come capitò un giorno a coloro che hanno messo in croce Gesù e che da lui sono stati perdonati ‟perché non sanno quello che fanno”. Su questa etica è stato costruito l’ordine giuridico europeo. Ancora oggi i giudici, per valutare un’azione, indagano se questa è ‟volontaria”, ‟intenzionale”, ‟preterintenzionale” cioè discutono dell’intenzione dell’attore. La domanda che ci poniamo è: in un’epoca dominata dalle scoperte scientifiche e dalle loro conseguenze, l’etica dell’intenzione è ancora praticabile? Direi che la risposta è no, nel senso che non è interessante sapere che intenzioni aveva Fermi quando ha inventato la bomba atomica, molto più importante è conoscere gli effetti della bomba atomica. Ne consegue che questo tipo di etica che scruta le coscienze e indaga le intenzioni e non gli effetti delle azioni, è improponibile, perché gli effetti potrebbero essere catastrofici e in molti casi addirittura irreversibili. 2. L’etica laica, dopo aver messo sullo sfondo Dio e l’imperscrutabilità delle intenzioni umane, formulò con Kant quel principio secondo cui: ‟L’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo”. E’questo un principio che ancora attende di essere attuato, se è vero che oggi le merci e i beni hanno una possibilità di circolazione ben superiore a quella degli uomini, e gli uomini sono accolti nei vari paesi solo se produttori di servizi, di beni e di merci. Ma anche se così non fosse e ogni uomo davvero fosse trattato come un fine, questo principio già rivela tutta la sua insufficienza. Davvero, a eccezione dell’uomo da trattare sempre come un fine, tutti gli enti di natura sono da considerare un semplice mezzo che noi possiamo utilizzare a piacimento? E qui il pensiero va alle piante, agli animali, alle foreste, all’aria, all’acqua, alla qualità dell’atmosfera. Non sono questi, oggi, altrettanti fini da salvaguardare, e non semplici mezzi da usare e da usurare? Sia l’etica cristiana sia l’etica laica sembra che si siano limitate a regolare i rapporti fra gli uomini, senza mettere a disposizione alcuno strumento, né teorico, né pratico per farci assumere una qualche responsabilità nei confronti degli enti di natura, su cui oggi intervengono, ad esempio, la fisica nucleare, la genetica e le biotecnologie. 3. L’etica della responsabilità, che è stata formulata all’inizio del secolo scorso da Max Weber e recentemente riproposta da Hans Jonas. Secondo Weber chi agisce non può ritenersi responsabile solo delle sue intenzioni, ma anche delle conseguenze delle sue azioni. Se non che, subito dopo, Weber aggiunge opportunamente: ‟Fin dove le conseguenze sono prevedibili”. Quest’ultima considerazione, peraltro corretta, relativa alla ‟prevedibilità” ci riporta a capo della questione, perché è proprio della fisica nucleare, della genetica e delle biotecnologie avviare ricerche e promuovere azioni i cui esiti finali non sono prevedibili. E di fronte all’imprevedibilità non c’è responsabilità che tenga. Lo scenario dell’imprevedibile, dischiuso dalla scienza non è infatti imputabile, come nell’antichità a un difetto di conoscenza dei fenomeni naturali, ma a un eccesso del nostro potere di ‟fare” enormemente maggiore del nostro potere di ‟prevedere” e quindi di valutare e giudicare. Stante l’inadeguatezza delle etiche tradizionali a regolare l’universo scientifico, proviamo a ribaltare il problema e chiedere alla scienza se, al suo interno, dispone di un’etica. A questa domanda la scienza risponde che il suo principio etico è che ‟bisogna conoscere tutto ciò che si può conoscere”, perché non è certo l’ignoranza ad emancipare l’uomo e a preservare la terra, sua dimora. Accade però che nell’attuazione del suo principio, la scienza si trova vincolata da due catene che sono rispettivamente l’economia e la tecnica, che non rispondono a esigenze di conoscenza, ma a esigenze di mercato, non hanno in vista l’emancipazione dell’uomo e la preservazione della terra, ma il profitto, che oggi sembra l’unico generatore simbolico di tutti i valori. Senza soldi infatti la scienza non può muovere un passo e l’economia, dal canto suo è disposta a finanziare, soprattutto, quando non solamente, la ricerca applicata che dà subito risultati economici. Senza tecnica la scienza è paralizzata, e la tecnica, dal canto suo, è disposta a servire quelle ricerche scientifiche in grado di mettere sul mercato prodotti che in breve tempo siano in grado di ripagare ricerche e accantonare utili. Il problema a questo punto non è più con quale etica contenere lo sviluppo scientifico, ma con quali strumenti liberare la scienza dalle catene economiche e tecnologiche, per salvaguardare il suo principio etico volto alla promozione della conoscenza. Partendo da questo principio la scienza potrebbe diventare l’etica della tecnica e dell’economia, assegnando alla tecnica i fini verso cui orientare il suo ‟fare” afinalizzato, e all’economia i limiti all’usura della terra, senza i quali anche l’esperimento umano potrebbe rischiare la sua estinzione. Ma se in linea teorica è vero, come già nel Seicento annunciava Bacone, che la scienza è potere (‟Scientia est potentia”), i condizionamenti tecnici ed economici che limitano l’esercizio di questo potere obbligano la scienza a cercarsi un altro alleato che può trovare, come vuole l’indicazione di Platone, nella ‟politica” intesa in senso alto, la quale potrebbe finanziare la ricerca di base, a cui tecnica ed economia non sono particolarmente interessate perché il successo non è garantito, e assegnare i fini che consentono di decidere quali risultati della ricerca di base devono trovare applicazione. Per un’alleanza ci vuole un reciproco interesse e, per la politica, allearsi con la scienza è di interesse vitale, anche se coloro che ci governano faticano a capire che in un mondo sempre più tecnologizzato, la politica, se non si porta all’altezza del mondo che le è dato da governare, rischia di non essere più il luogo della decisione, perché per decidere è costretta a guardare all’economia, la quale assume le sue decisioni a partire dalle risorse e dalle disponibilità tecnologiche, per cui la tecnica finirà per mandare in soffitta la politica se questa non si fa avveduta. Resta un ultimo problema. Nella sua alleanza con la scienza a quali criteri la politica deve fare riferimento nel prendere le sue decisioni, soprattutto oggi che il sapere scientifico e il fare tecnico non avvengono più, come per gli antichi, all’interno dell’ordine naturale e delle sue leggi pensate come immutabili, ma sull’ordine naturale, abolendo la differenza tra natura e artificio? In un simile contesto diventa quanto mai indispensabile una ripresa di quell’antica virtù greca che invitava l’uomo a non oltrepassare il limite. Certo ai greci non possiamo tornare, ma l’invito che essi rivolgevano all’uomo di dare una misura a se stesso, oggi diventa non solo attuale, ma addirittura urgente. Si tratta di una misura che non va cercata nei principi formulati quando la natura era immodificabile, ma in quell’indicazione aristotelica che, in assenza di principi generali, consente di prendere decisioni esaminando caso per caso. Aristotele chiama questa capacità ‟phronesis”, che noi siamo soliti tradurre con ‟saggezza”, ‟prudenza”, e la eleva a principio regolativo della prassi politica, quando: ‟Non si ha a che fare con ciò che accade sempre, come nella matematica o nella geometria, ma con ciò che accade per lo più, con ciò che fa la sua comparsa di volta in volta, in modo imprevisto e in tutti quei casi in cui non è chiaro come andranno a finire le cose, e quelli in cui la conclusione è del tutto indeterminata” (Etica a Nicomaco 1112 b). Per quanto drammatica possa sembrare la scelta, non dimentichiamo che la decisione inaugura un percorso che, augurandosi che sia il è più possibile condiviso, non ha altro fondamento all’infuori di sé. In questo senso è evento assoluto e quindi realtà tragica. Non è infatti l’assoluto garantito da argomenti incontrovertibili, ma l’assoluto della scelta sugli eventi che si presentano. In caso diverso sarebbe inutile la discussione tra gli uomini, sarebbe sufficiente la deduzione dai principi, che però, come abbiamo visto, non sono più all’altezza dell’accadere scientifico. Non resta allora che affidarci al buon uso della ragione, perché questa è la condizione umana, anche se per secoli occultata, da conciliare con l’altra imprescindibile esigenza umana che è il bisogno insopprimibile di conoscenza.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …