Umberto Galimberti: Nell’epoca della prestazione

14 Settembre 2006
‟Agire” e ‟fare” sono parole molto importanti per i destini dell’etica e per le sorti dell’uomo che, nell’età della tecnica, è sempre meno nelle condizioni di ‟agire”, ossia di compiere azioni in vista di uno scopo da lui scelto, e sempre più costretto a ‟fare”, ossia a compiere azioni descritte e prescritte dall’apparato di appartenenza, di cui non è detto che ne conosca gli scopi e, nel caso li conosca, non ne è comunque responsabile. Se a chi opera è richiesto solo di ‟operare bene”, dove ‟bene” significa in modo funzionale all’apparato, l’etica si riduce al puro controllo e autocontrollo della funzionalità e dell’efficienza, senza sporgere sull’esito finale dell’attività, che è di competenza dell’apparato e non di chi vi collabora come parte del complesso, come suo ingranaggio. In questo modo il singolo operatore è responsabile solo della ‟modalità” del suo lavoro, non della sua ‟finalità”. E con questa riduzione della sua competenza etica si sopprimono in lui le condizioni dell’agire, per cui anche l’addetto al campo di sterminio può dire di sé che ha soltanto ‟lavorato”. Tale è infatti la risposta che Franz Stangl, direttore del campo di sterminio di Treblinka, fornisce a più riprese nelle settanta interviste rilasciate a Gitta Sereny, e oggi raccolte nel volume In quelle tenebre (pagg. 175, euro 13, Adelphi) dove leggiamo: ‟Quanti prigionieri arrivavano ad ogni convoglio?” chiesi a Stangl. ‟Di solito circa cinquemila. Qualche volta di più”. ‟Ha mai parlato con qualcuna delle persone che arrivavano?”. ‟Parlato? No. Generalmente lavoravo nel mio ufficio fino alle 11. C’era molto lavoro amministrativo da sbrigare. Poi facevo un’altra ispezione partendo dal Totenlager. A quell’ora, lì erano già molto avanti con il lavoro”. Intendeva dire che a quell’ora le cinque o seimila persone arrivate quella mattina erano già morte. Il lavoro esigeva il massimo di efficienza. Nessun gesto inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo: ‟Arrivavano e, tempo due ore, erano già morti”, diceva Stangl. ‟Ma lei non poteva cambiare nulla di tutto questo?” chiesi io. ‟Nella sua posizione non poteva far cessare le svestizioni, le frustate, gli orrori di quei recinti da bestiame?”. ‟No, no, no! Quello era il sistema. L’aveva escogitato Wirth. Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile”. Se prima di indignarci di fronte a una simile difesa riflettessimo sul fatto che gli autori di questi crimini, o per lo meno molti di loro senza i quali l’ente di gestione criminale non avrebbe potuto funzionare, non si sono comportati nelle situazioni in cui commisero i loro crimini molto diversamente da come erano abituati a comportarsi nell’esercizio del loro lavoro e come ciascuno di noi è invitato a comportarsi quando inizia il proprio lavoro in un’organizzazione, allora comprendiamo quanto, nelle società tecnologicamente avanzate, sia difficile, se non addirittura impossibile, creare condizioni perché nasca un’etica della responsabilità. Infatti la divisione del lavoro che vigeva nell’apparato di sterminio di Treblinka e che oggi vige in ogni struttura aziendale fa sì che all’interno di un apparto produttivo tecnicizzato. L’operatore non solo diventa irresponsabile, ma addirittura gli è precluso anche il diritto alla cattiva coscienza, perché la sua competenza è limitata alla buona esecuzione di un compito circoscritto, indipendentemente dal fatto che, concatenandosi con gli altri compiti circoscritti previsti dall’apparato, la sua azione approdi a una produzione di armi o a una fornitura alimentare. Limitando l’agire a quella che nella cultura tecnologica si chiama button pushing (premere il bottone), la tecnica sottrae all’etica il principio della responsabilità personale. E questo perché chi preme il bottone lo preme all’interno di un apparato dove le azioni sono a tal punto integrate e reciprocamente condizionate che è difficile stabilire se chi compie un gesto è ‟attivo” o viene a sua volta ‟azionato”. Nel carteggio con Claude Eatherly, il pilota che ha sganciato la bomba atomica su Hiroshima, Gunther Anders chiede che cosa ha provato nel momento in cui ha ‟schiacciato il bottone”. La risposta del pilota è: ‟Nothing. That was my job” (Niente. Questo era il mio lavoro)”. Che dire? Che qui come altrove il singolo operatore è responsabile solo della ‟modalità” del suo lavoro e non della sua ‟finalità”, e con questa riduzione della sua competenza etica si sopprimono in lui le condizioni dell’agire, per cui anche il pilota che ha bombardato Hiroshima con difficoltà potrà dire di aver agito”, ma per quanto orrendo ciò possa sembrare, potrà dire di sé che ha soltanto ‟lavorato”. E questo vale ancora oggi sia per chi lavora nelle grandi fabbriche d’armi, sia nei centri studio per la sperimentazione delle armi nucleari, sia nelle più modeste fabbriche di mine antiuomo che per anni e anni continueranno a esplodere. La parola ‟lavoro” che non a caso campeggiava all’ingresso dei lager nazisti, per effetto del suo tradizionale rivestimento etico, minaccia, nell’età della tecnica, di neutralizzare qualsiasi responsabilità morale, come nel caso di Bush quando dichiara: ‟Ci ritireremo dall’Iraq quando avremo portato a termine il nostro lavoro”. Assolti da questa parola, i combattenti in Iraq si sentiranno responsabili non di ‟quello” che fanno, ma di ‟come” lo fanno. A giudicarli non sono infatti le intenzioni che hanno promosso la guerra o gli scopi finali che con la guerra si vogliono raggiungere (che in ogni caso non sono di loro competenza), a giudicarli sarà solo il ‟principio di prestazione”, ossia il modo con cui avranno eseguito gli ordini, il modo con cui avranno ‟lavorato”. Nell’età della tecnica, quel che vale per l’organizzazione militare, vale per qualsiasi organizzazione, dove il ‟principio di prestazione”, che ha come suoi parametri la funzionalità e l’efficienza, preclude l’orizzonte degli obiettivi finali, sia in termini di conoscenza che in termini di responsabilità. Anzi, in quanto possibile fonte di azione autonoma e quindi imprevedibile, la responsabilità è vista, all’interno dell’organizzazione, come qualcosa di non funzionale, quando non addirittura di ostile all’ordine. All’interno delle organizzazioni a cui tutti noi apparteniamo: da quella ecclesiastica a quella militare, da quella gerarchica della scuola e del lavoro a quella burocratica, si tende infatti ad assumere esclusivamente una responsabilità ‟di fronte al superiore”, che però è altra cosa dalla responsabilità ‟per le conseguenze” delle proprie azioni. La prima si riferisce a chi dobbiamo rispondere, la seconda riguarda ciò che abbiamo o non abbiamo fatto e i relativi effetti. Va da sé che chi si attiene alla prima forma di responsabilità, quella di fronte al superiore, non si ritiene responsabile delle proprie azioni. E questo non è solo il caso del criminale nazista, ma, fatte le debite proporzioni, che però investono solo i contenuti delle azioni e non la forma, riguarda il prete che si attiene alla dottrina moral-sessuale enunciata dalla sua autorità prescindendo dalla condizione particolare dei suoi fedeli, riguarda il giudice che si attiene alla lettera della legge senza considerare le situazioni di volta in volta diverse in cui ha luogo il reato, riguarda il professore che si attiene ai programmi ministeriali prescindendo dalla tipologia degli alunni con cui si trova a operare, l’impiegato che si attiene alle norme stabilite dall’organizzazione, il burocrate alle procedure. Tutti costoro non si considerano responsabili delle proprie azioni, ma limitano l’ambito della loro responsabilità all’autorità che prescrive le azioni, collocandosi in una zona di neutralità per non dire di irresponsabilità etica. Si tratta di uniresponsabilità che non ha nulla a che fare col peccato come previsto dalla morale religiosa, e neppure con l’azione deliberatamente malvagia che qualsiasi morale anche non religiosa riconosce, ma con l’insufficiente capacità di giudizio, col non voler pensare al di là del proprio ‟mansionario”, lasciandosi così espropriare della propria coscienza morale che, in qualsiasi apparato tecnico, si limita a sorvegliare le modalità con cui si compiono le proprie azioni e non ‟se” quelle azioni vanno eseguite e soprattutto ‟per quale scopo” devono essere compiute. Ma là dove a giudicare le azioni non sono gli scopi, ma solo la funzionalità e l’efficienza con cui questi vengono raggiunti, l’universo morale si estingue, non per negligenza dei singoli individui, ma perché così prevede la razionalità tecnica degli apparati, la quale non conosce altro pensiero, altra riflessione, altra razionalità che non sia quella ‟strumentale”, capace di valutare solo il rapporto costi-benefici, dove nei costi rientra anche il lavoro umano che, nella perfezione della macchina, ha il suo modello e il suo ideale. In riferimento a questo ideale ogni individuo tende a risolvere la sua identità nella funzionalità, a misurare la sua libertà a partire dalla competenza tecnica, ad acquisire stima di sé a partire dal riconoscimento che gli proviene dall’apparato di appartenenza, fino ad annullare la sua specificità nell’omologazione richiesta dalla cultura tecnica a cui sembra si sia arresa anche l’istruzione scolastica e, che dà l’impressione di aver definitivamente rinunciato a ogni ideale educativo e formativo, a vantaggio della pura e semplice acquisizione di strumenti e competenze tecniche. In un simile contesto è ancora praticabile un’etica? O ci siamo addirittura spinti oltre, fino a estinguere le condizioni per un risveglio e un’attivazione della coscienza morale?

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …