Vittorio Zucconi: La solitudine del presidente

14 Settembre 2006
Alla fine del lungo giorno delle rimembranze, il Presidente Bush ha voluto, ha dovuto, parlare per fingere di rassicurare l’America. Ma in realtà per convincere se stesso che la strada di morte costruita a partire dal cratere delle Due Torri era la direzione giusta e necessaria da imboccare. Ascoltandolo mentre argomentava con la passione che sa ritrovare in questi momenti e mentre ripeteva nei 20 minuti della sua orazione all’America il mantra del ‟resolve”, della risolutezza, la sensazione era quella di un uomo che sta ormai cercando di autoconvincersi di non aver commesso un errore epocale, che vuole esorcizzare il timore di passare alla storia come colui che cadde nella provocazione del culto della morte, aperta dagli esecutori dell’attentato. E credeva di guidare alle proprie condizioni l’Occidente in un conflitto nel quale era stato invece attirato nei termini, nei tempi e sul terreno scelto dal nemico. ‟Oggi l’America è più sicura” si è ripetuto Bush nel discorso dallo Studio Ovale, perché nei cinque anni trascorsi dal 2001 ‟nessun attentato ha colpito gli Stati Uniti” e dunque questa è la prova ‟ex post facto”, a posteriori, che le scelte e i comportamenti del suo governo hanno funzionato. Il fatto che il numero degli attentati e delle vittime del terrorismo, americani e non americani, in altre nazioni, secondo i rapporti annuali del Dipartimento di Stato, siano in realtà aumentati, non diminuiti, dall’inizio della controffensiva anti jahidista e l’apprezzabile quanto teorico disegno della ‟esportazione della democrazia” stia, a essere ottimisti, scricchiolando non possono turbare questo Presidente condannato a ‟mantenere la rotta” che ha tracciato. George Bush non può permettersi il lusso di vacillare, di dubitare, di fermarsi, di ritirarsi. Quando afferma che abbandonare oggi l’Iraq e l’Afghanistan al proprio destino sarebbe un tradimento e una sconfitta, come ha fatto anche ieri, dice in realtà che un ritiro oggi, senza neppure la foglia di fico di un ‟accordo di pace” in stile Vietnam non essendo pensabile o possibile una trattativa statuale con al Quaeda, sarebbe la sua sconfitta. Si può dibattere se davvero la presenza di 145mila soldati americani in Iraq sia oggi la possibile soluzione alla guerra civile avanzante o se invece sia il problema. Ma è ovvio che un ritiro delle truppe sarebbe la sconfitta della presidenza Bush-Cheney e della teoria della ‟guerra preventiva”. Né si può licenziare con calcoli e cinismo elettorale il ritrovato accanimento oratorio di Bush in quest’ultima settimana, culminato con l’arringa di ieri sera alle 21, ignorata dal network Abc che aveva in programma un incontro di football. è vero che il suo partito, il repubblicano, è in agitazione per le elezioni di mezzo mandato presidenziale a novembre e invocava (e temeva) un ritorno del suo leader sulla scena e una mossa per invertire la brutta piega dei sondaggi. Ma un Presidente che non ha più elezioni da vincere per sé, che ha davanti gli ultimi, languidi due anni degli otto che gli sono stati concessi, si muove e agisce largamente in proprio, per garantire la propria collocazione nella galleria dei ritratti appesi al piano terreno della Casa Bianca. Ed è questa eredità che Bush sente vacillare. Dall’altra parte delle telecamere, fra i non molti che si erano staccati dalla partita fra la squadra di Washington e quella del Minnesota, c’erano sei americani su dieci che non lo apprezzano più, sei su dieci che non credono più alla formula dell’‟Iraq come parte essenziale della guerra globale al terrore”, che recalcitrano di fronte al reclutamento, che si domandano se i 300 miliardi di dollari spesi finora in Iraq, dove la guerra avrebbe dovuto ‟pagarsi da sola” secondo la previsione di uno dei suoi architetti, Paul Wolfowitz, siano stati buttati nel fuoco, che giudicano ‟sbagliata” quella rotta che Bush insiste nel mantenere ferma. Speculare sui morti di cinque anni or sono, spremere lacrime per vincere qualche seggio è un’operazione spregevole quanto banale, ma non è questo che Bush ha voluto fare ieri sera, se non come ‟effetto collaterale”. Questo sarà fatto, fino al 7 novembre, dai deputati e senatori repubblicani in lotta per la evitare la morte civile. Le intenzioni del Presidente sono insieme più nobili e più personali. L’uomo che parlava dallo Studio Ovale era qualcuno che sa di avere sulle spalle la sicurezza di 300 milioni di americani che, nella gerarchia dei valori e delle aspettative americani, da lui soltanto si attendono protezione. George Bush non è personalità costruita per il dubbio e la riflessione. Di certezze vive e di dubbi potrebbe morire, ora che è passato oltre le preoccupazioni elettorali per entrare in un territorio infinitamente più angoscioso, quella della responsabilità di avere accettato e poi esteso una guerra che lo assedia con dubbi, che ora non è più certo di poter vincere, che ha liso l’immagine internazionale dell’America, trascinando anche gli amici più fedeli come Blair e Aznar al declino. ‟Ci sono ancora coloro, là fuori, che vorrebbero infliggere all’America quello che fu fatto l’11 settembre” diceva echeggiando quello che il leader reale di al Quaeda, l’egiziano al Zawahiri stava spiegando nel solito video amatoriale come se fra i due si fosse stabilita una assurda simmetria di parte e contropartita. Ma Bush parlava per ascoltarsi, per farsi rassicurare dalla sola persona che ancora creda assolutamente in lui, se stesso.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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