Vittorio Zucconi: Addio al mito americano della prima donna immigrata

15 Settembre 2006
C’è una falsa santa sull’altare del sogno americano. La prima persona che sbarcò a Ellis Island e da lì si incamminò verso il nuovo mondo, non era quella che da un secolo la nazione celebra. Si chiamava Annie Moore ed era una ragazza irlandese di 15 anni. Con il cappellino premuto in testa contro il vento gelido della baia di New York, Annie raggiunse il West, la frontiera, il Texas e la leggenda.
Dal primo gennaio del 1892, quando "l’isola delle lacrime" fu aperta, la ragazza del West è divenuta monumento, letteratura, sillabario, culto, simbolo e soprattutto mito. Dunque, come tutti miti, un falso. La vera Annie Moore, non andò mai nel West, non raggiunse il Texas, non morì a 46 anni sotto un tram a cavalli come vuole l’agiografia ufficiale. Divenne la moglie di un fornaio a New York dove morì anziana e stanca, dopo avere messo al mondo 11 figli e raschiato la vita dell’emigrante senza soldi. Per centoquattordici anni, gli americani hanno venerato la ragazza sbagliata.
Maledetta internet, e maledetti revisionisti della storia, la ballata americana di Annie Moore si è sfarinata quando una ricercatrice di genealogie dal nome impossibile, uno di quei nomi che i bruschi funzionari di Ellis Island avrebbero certamente storpiato e anglicizzato per pigrizia, la signora Smolenyak Smolenyak (non è un refuso, è nata Smolenyak e ha sposato uno Smolenyak) si è voluta divertire a compiere qualche indagine su Annie Moore. Il ‟New York Times”, al quale la Smolenyak in Smolenyak ha raccontato la sua scoperta, spiega che molto presto la ricercatrice cominciò a sospettare che nel puzzle della eroina irlandese ci fosse qualche pezzo che non quadrava. Anche nella approssimativa anagrafe della fine Ottocento, soprattutto in quel Texas da poco divenuto Stato, le impronte della "ragazza del West" andavano in direzione diversa da quella celebrata nel folklore ufficiale.
Può non sembrare una scoperta sconvolgente questo caso di "identità sbagliata" se non fosse che la vita e le avventure della ragazza di Cork, in Irlanda, che un rude marinaio gentiluomo fece passare avanti a tutti nella fila al marinaresco grido di ‟ladies first”, prima le signore, era diventata un santino della mistica americana, come il tè inglese gettato a mare a Boston, il grido di ‟Gli inglesi stanno arrivando!” del ribelle Paul Revere, o la difesa disperata di Fort Alamo contro i Federales del generale Santa Ana. La statua di bronzo di Annie, cappellino in testa trattenuto da una mano e borsetta nell’altra dopo settimane di viaggio nella stiva del piroscafo "Nevada", erano vista dai milioni di turisti che compiono il pellegrinaggio della baia di New York sul Ferry, dopo la Statua della Libertà. Era additata ai fanciulli come l’incarnazione dello spirito del pioniere che si avventurava verso il West senz’altro capitale che il proprio coraggio e i propri sogni. Ogni anno, per le feste comandante dell’orgoglio nazionale, i discendenti e pronipoti texani di Annie Moore erano portati a Ellis Island - che nel 1954 chiuse i battenti e dal 1990 funziona soltanto come museo - ed esibiti come gli scrigni del dna che ha fatto l’America. Peccato che fosse la famiglia sbagliata.
Smontare la leggenda è stato facile. La "falsa" Annie Moore già viveva in Texas nel 1880, dunque non poteva essere la "vera" Annie Moore, la prima donna a Ellis Island, e fu inaugurata il primo gennaio del 1892. La Annie vera aveva avuto un’esistenza assai più lunga, ma anche molto meno glamorous. Non aveva mai attraversato il fiume Hudson, quello che separa Manhattan dal resto del continente verso l’Ovest. Era stata inghiottita da quella New York che risucchiava immigrati per costruire sé stessa, secondo la celebre frase attribuita a un italiano: ‟Venni in America credendo che le strade fossero lastricate d’oro e ho scoperto che non erano affatto d’oro e che toccava a me lastricarle”, mentre le loro donne facevano figli. Annie la cattolica ne aveva fatti 11, dei quali soltanto cinque erano sopravvissuti. Aveva sposato un fornaio nella East Side di Manhattan e morì di vecchiaia, nella propria coraggiosa miseria. Non travolta da un tram a cavalli come l’eroina del melodramma ufficiale, finta e sfortunata.
Naturalmente, è stata la potenza di Internet a infliggere il colpo mortale alla epopea della "fanciulla del West". Quando la Smolenyak, una Ceca di origine, fece appello ad altri curiosi e storici via il Web, in una settimana le arrivarono fotografie, documenti, certificati e reperti che stabilirono senza dubbio l’errore. È stato un semplice caso di ‟identità confuse”, quali certamente abbondano nel folklore e nella leggende in tutto il mondo? O la vita e i tempi di Annie Moore sono stati volutamente distorti per creare un apologo di propaganda popolare offerto alla mitologia del "sogno americano", come il falso aneddoto del piccolo George Washington ‟che non diceva mai bugie al papà” o del campione di football Pat Tillman, volontario nella guerra in Afghanistan ucciso dai Taliban, prima che si scoprisse che era stato in realtà abbattuto per errore da un commilitone che gli aveva sparato alle spalle.
Questo della "Annie sbagliata" è probabilmente un errore innocente, un mito gentile e non credo che la statua della ragazza con il cappellino smosso dal vento sarà abbattuta come un falso storico. Non doveva essere poi molto diversa, fisicamente, dalla "Annie vera" e in fondo la sua storia è ancora più bella e commovente dell’altra. Una vita negli slums di New York, tra italiani, irlandesi, polacchi, ebrei dell’est europeo, e 12 milioni di morti di fame che attraversano Ellis Island, richiedeva anche più coraggio che la traversata delle praterie. Tra i pronipoti della "vera Annie", oggi ci sono medici, avvocati, insegnanti e un economista che ha fatto fortuna. Il monumento è falso, ma il sogno americano per la contadina irlandese ha funzionato. Ci sono voluti 114 anni perché funzionasse, ma i poveri devono avere molta pazienza.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …