Gian Antonio Stella: Rivolta in Senato. L’elmetto biondo del berluscong

29 Giugno 2006
L’aveva giurato: ‟Palazzo Madama sarà il Vietnam della sinistra! Viva i berluscong!”. Detto fatto, il senatore azzurro Lucio ‟Ho-Chi” Malan si è messo l’elmetto come fosse sul Mekong. E si è asserragliato sui banchi del Senato rifiutandosi di obbedire all’espulsione decisa dal presidente, Franco Marini. ‟Quando hai finito spegni la luce”, gli avrebbe forse detto Giancarlo Pajetta, che irrise con quella battuta omicida alla fluviale arringa ostruzionistica di Giorgio Almirante che sbrodolava da nove ore contro (pensa te...) l’introduzione delle Regioni. Altri tempi: nel pieno dello scontro, c’era chi conservava la capacità di svelenire la tensione.
Tutto cambiato. Al punto che il senatore leghista trevisano Piergiorgio Stiffoni, uno pratico del tema visto che un paio di anni fa sospirò sugli immigrati dicendo ‟peccato che il forno crematorio del cimitero di Santa Bona non sia ancora pronto”, ha trovato un paragone solo col Terzo Reich: ‟L’unico brutto precedente a quanto successo oggi si è verificato nel ’32, quando il presidente del Bundestag, Hermann Goering, impedì alle opposizioni di prendere la parola proprio sulle pregiudiziali. Un anno dopo Hitler vinse le elezioni e impose la dittatura”. Al che la sua collega ulivista Albertina Soliani, sporgendosi spericolata sullo stesso abisso, ha ribattuto che no, a Hermann Goering somiglia semmai Malan.
Deliri. Il guaio è che a forza di spararle così grosse, dai e dai, finiscano per crederci sul serio. Se non quanti usano strumentalmente questo modo d’incendiare la polemica politica, almeno quelli che li ascoltano, li seguono, li applaudono. Per carità, forse era esagerato il ‟bon ton” delle assise parlamentari di una volta, che come racconta Mario Costa Cardol ‟cominciavano sempre con un omaggio alla letteratura o alle scienze” e col presidente che, ‟prima di dare la parola agli oratori iscritti, annunciava che il deputato tale e il deputato talaltro avevano fatto dono alla Camera della loro ultima opera: un romanzo, un memoriale, un trattato, una raccolta di poesie...”. Ma il degrado dello scontro politico ha vissuto ieri una tappa difficile da dimenticare.
Così come è difficile immaginare che il protagonista principale sia solo casualmente Lucio Malan, 46 anni (la prima volta che lo vide al Senato nel 2001 Berlusconi gli chiese: ‟Ma ce l’hai l’età?”), torinese di Luserna San Giovanni, sposato, due figli, valdese (‟Uno dei pochi valdesi di destra”, ha sorriso ieri Livia Menapace parlando del suo scontro con l’abruzzese Marini come di un cozzo ‟tra Alpi e Appennini”), una laurea in Lettere classiche accantonata da anni.
Eletto deputato la prima volta sotto le insegne del Carroccio, noto agli amici anche per essere l’unico a vantarsi sulla ‟Navicella” parlamentare di essere andato a Las Vegas (la città più godereccia, folle e peccaminosa del creato) per conseguire lì tra le roulette e le slot-machine un ‟Master in Storia”, Malan è un berlusconiano a quattro ruote motrici. Lo diventò quando Bossi decise di sbattere la porta scaricando il primo governo azzurro e non ha smesso più. Giustizialista spinto (fece l’inferno perché fossero allungati i tempi della prescrizione per i reati legati alle mazzette), si è pentito fino a spiegare che bisogna ‟introdurre un principio di rispetto della privacy negli atti di donazioni ai partiti politici da parte di imprenditori e di privati cittadini”.
Il Cavaliere lo adora. Tanto da avere affidato a lui, così fedele al partito che un giorno si fece beccare quattro volte dalle telecamere mentre faceva il ‟pianista” votando al posto dei colleghi, il ‟Vademecum del candidato” del 2003 in cui si raccomandava di muoversi preferibilmente con l’autista e specializzarsi in ‟un discorsetto diretto e immediato di non più di 10 minuti, evitando ogni impostazione tribunizia”.
C’è bisogno di ‟berluscong”? Nessuno è più ‟berluscong” di Lucio Malan.
E proprio questo sembra avvalorare la tesi di chi, nello scontro di ieri al Senato, vede la precisa scelta di Berlusconi (al di là dei torti e delle ragioni sul rispetto delle regole al centro della rissa) di infischiarsene degli appelli alla moderazione e tirar dritto soffiando sulla brace dello scontro per mantenerla incandescente. Bossi pare orientato a prendersi una pausa di riflessione dopo la sconfitta alle elezioni, la disastrosa gestione della partita per le cariche istituzionali, il fallimento della spallata alle amministrative e la batosta al referendum che ha seppellito la ‟devolution” sotto sei milioni di voti di distacco? E lui rilancia. Non si cambiano i generali, finché si spara. E lui manda tutti a sparare, certo che alla fine il debolissimo fortino unionista a Palazzo Madama dovrà bene cadere.
L’ha assaggiato, l’ostruzionismo, quando stava dall’altra parte. Sa che gli dava fastidio anche quando a Palazzo Chigi dominava una maggioranza mai vista nella storia e si lagnava dei lacci e lacciuoli parlamentari che non gli permettevano di governare: ‟Questa è l’opposizione che abbiamo: non guarda all’interesse del Paese”. Era andato sotto un mucchio di volte lui, vuoi che non possa essere travolta l’armata litigiosa della sinistra? Un solo limite pareva avere, l’ostruzionismo: con le nuove regole, nessuno poteva più paralizzare i lavori battendo i vecchi record del già citato Almirante (non a caso ribattezzato ‟vescica d’oro” per la capacità di resistere senza andare al bagno) o di Massimo Teodori che arrivò a parlare per 16 ore e 5 minuti guadagnandosi l’ironico omaggio di Oscar Luigi Scalfaro: ‟Complimenti, ha omesso solo la storia del fermo di polizia al tempo di Omero”. Era impossibile, con quelle regole, tenere in ostaggio per giorni il Parlamento. Con quelle regole, però. Ma la soluzione era lì, sotto gli occhi: al cartellino rosso dell’arbitro, ha dimostrato Malan, bastava fare spallucce.

Gian Antonio Stella

Gian Antonio Stella è inviato ed editorialista del “Corriere della Sera”. Tra i suoi libri Schei, L’Orda, Negri, froci, giudei & co. e i romanzi Il Maestro magro, La bambina, …