Vittorio Zucconi: Il rodeo di George

13 Novembre 2006
Se c’erano un uomo, un volto, un atteggiamento che incarnavano più di ogni altro l’era Bush, la sua presunzione e i suoi fallimenti, quest’uomo era Donald Rumsfeld, quel Rummy beatificato inizialmente, e poi scaricato come zavorra, dagli ultrà dell’unilateralismo, delle guerre preventive e dei "cambi di regime". Non ci potrebbe essere dunque un punto esclamativo più sonoro al "pestaggio elettorale", al thumping, come lo ha chiamato onestamente lo stesso Bush che ne è la prima vittima, di questa brutale defenestrazione dell’uomo simbolo di un’epoca, addirittura mentre ancora in alcuni collegi si contano i voti per misurare le dimensioni finali della lezione. Rumsfeld non è soltanto il solito agnello sacrificato dai pontefici del potere per placare una democrazia che sei anni di deriva ideologica avevano tentato di snaturare. è il segnale che l’America ha ripreso i sensi e li ha ripresi anche Bush che per sostituire Rumsfeld ha scelto un vecchio "commis de etat", Robert Gates, ripescato dal circolo degli amici e fedeli di suo padre. Il rinsavimento di King George dalla sua follia comincia con il ritorno alla casa padre. Quello che aveva evitato di invadere l’Iraq prevedendo esattamente quello che sta accadendo ora. è stato comunque ammirevole, il presidente Bush, a offrirsi ai giornalisti in diretta tv la mattina dopo la Little Big Horn repubblicana. Ha avuto coraggio e senso sportivo di fronte alla disfatta, perché Bush è americano, cresciuto nel culto della volontà popolare, non importa quanto risicato sia il margine, e ha vissuto in prima persona gli alti e bassi delle fortuna paterne, esaltato e poi sconfitto, nel 1991. «Sono stato varie volte in questo rodeo”, ha sorriso con tono riflessivo e ironico, e se il toro della volontà popolare questa volta lo ha sbalzato brutalmente, il politico Bush sa sempre reagire meglio del Bush statista. Le parole che ha detto, le offerte di collaborare con un Congresso perduto ormai anche al Senato oltre che alla Camera, le promesse di «finire il lavoro in Iraq”, naturalmente senza mai specificare che cosa significhi finire il lavoro né quando, sono le formule di rito che un Capo dello Stato e del governo deve dire quando sente mancargli la terra sotto i piedi. Altri grandi presidenti, come Reagan negli anni 80 e Clinton negli anni 90 dovettero imparare a governare senza poter contare su un Parlamento addomesticato e Wall Street ha applaudito facendo salire i corsi, perché la condizione del potere diviso, tra esecutivo e legislativo di colore opposto, è la normalità, non l’eccezione nella storia americana. è esattamente ciò che i prudenti, malfidenti padri della patria avevano voluto, costruendo quel marchingegno di elezioni in tempi e anni scalati e di competenze distinte che ha sorretto la più grande democrazia del mondo attraverso due secoli di guerre e un discreto numero di pessimi presidenti. Nel suo tono pensoso e a tratti spiritoso, che ora finalmente può affiorare dietro l’armatura della retorica bellicista e vanagloriosa che proprio Rumsfeld rappresentava, Bush ha lasciato intravedere i segnali di quel pragmatismo e di quella rinuncia ideologica che gli elettori, votando contro di lui in maniera incontestabile, gli hanno finalmente imposto. Quando un reporter gli ha chiesto se finalmente avesse letto tanti libri quanto il suo «cervello”, il suo Machiavelli elettorale, Karl Rove, Bush ha risposto scoccando un’occhiata assassina a Rove, seduto in prima fila: «No, perché io, a differenza di altri, ero troppo impegnato nella campagna elettorale”. La stoccatina a colui che ancora due anni or sono aveva incoronato come "l’architetto" della vittoria, e l’esecuzione sommaria di Rumsfeld al quale aveva garantito, mentendo, il contratto sicuro fino al 2009 appena tre giorni prima del voto, possono indicare che anche Bush, come gli elettori, è uscito da quella ubriacatura di sciovinismo e di panico che aveva comprensibilmente afferrato tutto il paese, dopo l’11 settembre. Ascoltando il presidente che ieri ammetteva la propria "frustrazione" di fronte al sanguinoso pantano iracheno, che confessava di "non avere previsto" il massacro dei repubblicani fedeli a lui, si aveva la sensazione di rivedere il "vero Bush", quello che avevamo ascoltato nella prima campagna elettorale parlare come un realista moderato, come un repubblicano classico, allergico alle avventure internazionali e cauto nell’impiego della forza militare. Le circostanze, la presenza di un interlocutore in Parlamento che dal 3 gennaio prossimo lo minaccia con commissioni d’inchiesta, con il controllo di tutti i fondi pubblici e con ipotesi di impeachment, ha demolito il "falso Bush", nato dallo shock dell’11 settembre e cementato sulle rovine del Word Trade Center con il megafono in mano e le lacrime agli occhi pochi giorni dopo, in piedi su cataste di resti umani. Il Bush falso neo-con, giustiziere di regimi sgraditi e di tiranni non utili, era appunto un’invenzione neo-con, la creatura di circostanze e di personaggi che gli avevano offerto un kit ideologico preconfezionato e pret a porter, per rispondere al suo bisogno di agire e reagire. O sarà così o il "falso Bush" si condannerà a due anni di irrilevanza, condannando il partito anche a perdere la Casa Bianca nel novembre del 2008. Martedì non ha vinto la sinistra, né perduto la destra. Ha vinto l’America moderata e pragmatica, quella che accetta, si emoziona, si mobilita, ma poi misura, pesa e licenzia in tronco. La disfatta elettorale, il thumping, che è il calpestare della terra sotto lo stivale, costringerà il "vero Bush" a farsi avanti e il "falso Bush" a ritirarsi, come ha ritirato colui che gli aveva offerto lo strumento sbagliato per realizzarsi, Rumsfeld, La scelta di Robert Gates, bushiano ma non bushista, amico dell’altro George, ex direttore della Cia scelto dal padre, abile mediatore, è ciò che i veri sconfitti di questa elezione storica, che dopo sei anni di "monocolore repubblicano" riporta equilibro fra le istituzioni, gli ideologhi, più aborrono: è un realista. Uno che sa, come lo sa la nuova maggioranza democratica, che ha ragione Bush quando dice che l’America resta obbiettivo di fanatici e assassini, che una guerra, invisibile quanto letale, è in corso e scappare non è mai una vittoria. Ma ora il problema per l’America e per i democratici che hanno ereditato il tragico bambino iracheno, non è vincere, è trovare una soluzione che possa sembrare una vittoria. Una soluzione, appunto, realistica, come realistica è tornata a essere la democrazia americana.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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