Umberto Galimberti: Narcisisti e schizzati, così trionfa l’apparenza

14 Novembre 2006
‟Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza” scriveva Nietzsche, ponendo fine alla storia dell’anima che, ideata da Platone per costruire un sapere che non si fondasse sulla precarietà dell’esperienza sensibile ma sulla solidità dei costrutti della mente, era stata poi requisita dalla tradizione cristiana e rigiocata in scenari non più di conoscenza, ma di salvezza.
Oggi, col progressivo venir meno della fede nell’immortalità, in quella sorta di neopaganesimo, non necessariamente anticristiano, che caratterizza la modernità, il corpo riemerge dallo svilimento in cui era stato confinato per tutto il tempo dominato dalla storia dell’anima.
Ma questa riemersione è molto ambigua e per nulla emancipata dalla cultura dell’anima. Infatti, dopo aver declinato la "salvezza" nell’ambito più modesto, ma anche più concreto della "salute", per scongiurare la malattia e la morte non più accompagnata da speranze ultraterrene, il corpo recupera tutte quelle pratiche che un tempo erano dell’anima. Dal digiuno nelle forme ossessive delle diete spinte fino all’anoressia che così da vicino richiama le pratiche ascetiche, agli esercizi fisici che, nella loro ritualità e ripetitività, richiamano gli esercizi spirituali intrisi di sacrificio e mortificazione.
In questo modo il corpo diventa quell’istanza gloriosa, quel santuario ideologico in cui l’uomo consuma gli ultimi resti della sua alienazione. Parlo di "alienazione" perché oggi non "abitiamo" più il nostro corpo, ma, al pari degli schizofrenici, lo percepiamo come altro da noi, come qualcosa che dobbiamo "costruire" per renderlo il più possibile corrispondente ai canoni di salute, forza, bellezza che la nostra cultura diffonde perché si possa essere accettati e per autoaccettarsi. Non più il corpo come "veicolo", ma come "ostacolo" per essere al mondo, se non corrisponde ai criteri fissati dalla moda per essere guardati, appetiti e desiderati.
E tutto si ferma lì, nella clausura di un autismo narcisistico che non approda alla comunicazione, ma alla soddisfazione di essere oggetto di un desiderio che, ripiegandosi su se stesso, celebra la sua perversione.
Finita l’epoca in cui del corpo si sfruttava la forza-lavoro, oggi si sfrutta la forza del suo desiderio, allucinandolo con quei bisogni da soddisfare quali la bellezza, la giovinezza, la salute, la sessualità che sono poi i nuovi valori da vendere. Mobilitato nel processo di appetizione-soddisfazione, il corpo diventa l’oggetto del nostro quotidiano esercizio e sacrificio, per raggiungere quell’ideale che la moda propaga con un imperativo che più categorico non può essere, se è vero che mancare l’ideale fissato equivale, a dir poco, a una sorta di esclusione sociale.
Orientando il desiderio e incanalandolo verso gli imperativi della moda, il corpo finisce, a sua insaputa, col mettere in scena lo spettacolo della se-duzione in vista della pro-duzione. Tutta la religione della spontaneità, della libertà, della creatività, della sessualità gronda infatti del peso del produttivismo. Dai solarium per abbronzarsi alle palestre per tonificare i muscoli, dalle profumerie dove si vendono le creme più assurde alle saune, ai bagni turchi, ai centri benessere, è tutto un diffondersi di quella "economia libidinale" (per utilizzare in senso traslato una felice espressione di Lyotard) con cui il mercato sfrutta la nostra alienazione dal corpo, la distanza che noi avvertiamo tra come "è" e come "dovrebbe essere". E non è chi non veda che là dove c’è "dovere" c’è morale, e quindi regole di condotta, sacrifici, mortificazioni, rinunce.
Così abbiamo ridotto il nostro corpo a un manichino a disposizione della moda che ogni anno ci veste e ci spoglia con gli abiti che decreta, dove l’accessorio sta per primavera, il mantello sta per mezza stagione, il jeans sta per giovanile. Dove "basta un particolare per dare personalità", "un piccolo nulla per cambiare tutto". E così, conferendo al nulla un potere semantico che si irradia a distanza fino a significare qualsiasi cosa, la moda risolve a buon prezzo problemi di identità che pongono fine all’angosciante interrogativo: ‟Chi sono?”.
Componendo diversamente i tratti vestimentari, in modo da apparire contemporaneamente "dolci e fieri", "rigidi e teneri", "severi e disinvolti", la moda offre ai nostri corpi, resi incerti dalle infinite possibilità di cambiamento che vengono offerte, un sogno di totalità, dove non è necessario scegliere, perché si può essere tutto contemporaneamente. E in modo democratico perché il particolare "non costa niente", per cui, nell’uguaglianza delle borse, la moda consegna ai nostri corpi un’identità (o una maschera) ogni giorno diversa nel rispetto della libertà dei gusti.
Come sempre accade si gioca a quello che non si osa essere. E attraverso la moda si può giocare al potere politico perché la moda è monarca, a quello religioso perché i suoi imperativi hanno il tocco del decalogo, si gioca alla follia perché la moda è irresistibile, alla guerra perché è offensiva, aggressiva e alla fine vincitrice. I suoi decreti non hanno una causa, ma non per questo sono privi di volontà, la sua tirannia produce un universo autarchico in cui i pantaloni scelgono da sé la propria giacca e le gonne la propria lunghezza per dei corpi ridotti a manichini d’appoggio.
Ma anche così abbelliti e costruiti i corpi inesorabilmente invecchiano, e non c’è più la fede nell’anima a garantire una speranza di sopravvivenza. Al suo posto subentra, allora, angosciante e ossessiva, la rincorsa a ritroso nel tempo, per recuperare i tratti della giovinezza perduta attraverso gli interventi chirurgici o gli artifici della cosmesi. E qui il danno che si produce non è da poco se i corpi che invecchiano hanno scarsa visibilità, se esposti alla pubblica vista sono soltanto corpi truccati, rifatti e resi telegenici per garantire un prodotto, sia esso mercantile o politico, dal momento che anche la politica oggi vuole la sua telegenia. La faccia del vecchio, infatti, è un atto di verità, mentre la maschera dietro cui si nasconde un volto, trattato con la chirurgia o con un eccesso di cosmesi, è una falsificazione che lascia trasparire l’insicurezza di chi non ha il coraggio di esporsi alla vista con la propria faccia.
Nel suo disperato tentativo di opporsi alla natura, che vuole l’inesorabile declino degli individui, chi non accetta la vecchiaia è costretto a stare continuamente all’erta per cogliere di giorno in giorno il minimo segno di declino. Ipocondria, ossessività, ansia e depressione diventano le malefiche compagne di viaggio dei suoi giorni, mentre suoi feticci diventano la bilancia, la dieta, la palestra, la profumeria, lo specchio. Se la vecchiaia non mostra più la sua vulnerabilità, dove reperire le ragioni della pietas, l’esigenza di sincerità, la richiesta di risposte sulle quali poggia la coesione sociale? La faccia del vecchio è un bene per il gruppo, ed è per il bene dell’umanità, scrive Hillman, che: ‟Bisognerebbe proibire la chirurgia cosmetica e considerare il lifting un crimine contro l’umanità” perché, oltre a privare il gruppo della faccia del vecchio, finisce per dar corda a quel mito della giovinezza che visualizza la vecchiaia solo come anticamera della morte.
Finché consideriamo ogni ruga, ogni capello che cade o incanutisce, ogni tremito, ogni macchiolina ematica sulla pelle esclusivamente come indizi di declino, affliggiamo la nostra mente tanto quanto la sta affliggendo la vecchiaia.
E allora il lifting facciamolo non alla nostra faccia, ma alla nostra mente e scopriremo che tante idee che in noi sono maturate guardando ogni giorno in televisione lo spettacolo della bellezza, della giovinezza, della sessualità e della perfezione corporea, in realtà servono per nascondere a noi stessi e agli altri la qualità della nostra personalità, a cui magari per tutta la vita non abbiamo prestato la minima attenzione, perché sin da quando siamo nati ci hanno insegnato che apparire è più importante che essere. E a questo dogma terribile abbiamo sacrificato il nostro corpo, incaricandolo di rappresentare quello che propriamente non siamo, o addirittura abbiamo evitato di sapere.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …