Amos Oz: Israele-Palestina. Due fronti in Movimento

28 Novembre 2006
La tregua tra Israele e i palestinesi, se resisterà, sarà un primo passo. A questo dovranno seguirne almeno altri tre: la liberazione degli ostaggi e dei prigionieri, la formazione di un nuovo governo palestinese che non aspiri alla distruzione di Israele ma a una convivenza con lo Stato ebraico, e l’inizio di un negoziato di pace tra israeliani e palestinesi. Sono passi che si realizzeranno a breve? Tutto dipende dal consolidamento del primo: la tregua. Forse i palestinesi hanno imparato a caro prezzo che il lancio di razzi su centri abitati israeliani non favorisce l’indipendenza. Gli israeliani, viceversa, hanno imparato che vaste operazioni militari non fermano i palestinesi. Ci sono indicazioni che il governo di Hamas è arrivato a un vicolo cieco dopo aver portato ai palestinesi solo un embargo internazionale e israeliano, sofferenze prolungate e vittime inutili. Ci sono altrettante indicazioni che il governo israeliano ha capito che non esistono soluzioni unilaterali e non c’è altra scelta che cercare un accordo. Forze di entità non indifferente, estremisti di entrambe le parti, continuano a fomentare gli animi e a considerare disfattismo ogni compromesso, segno di debolezza ogni negoziato. Oltranzisti palestinesi vogliono proseguire la ‟lotta armata” fino alla distruzione di Israele e oltranzisti israeliani chiedono al loro governo di tornare a occupare la striscia di Gaza e di abbandonare definitivamente l’idea di un ritiro dai territori occupati. La spirale di sangue e la sensazione che non si riesca a uscirne suscitano disperazione nei moderati di entrambe le parti. La debolezza di Olmert e di Abu Mazen ne accresce lo sconforto. La sensazione di impotenza provata da molti sostenitori della pace li porta a pensare che l’estremismo sia riuscito a soffocare nel sangue la possibilità di raggiungere una riconciliazione. Ma questo loro senso d’impotenza, quest’incapacità di agire, non fa che accrescere il fanatismo dei radicali. Solo qualche anno fa i fautori della pace riempivano le piazze. Sono stati loro a far cadere il governo Shamir, il governo Natanyahu e ad aprire la strada al riconoscimento reciproco dei due popoli. Nelle ultime elezioni - pochi mesi fa - hanno mandato al potere un governo di centrosinistra che si poneva come obiettivo il ritiro unilaterale dalla maggior parte dei territori occupati. Ma ecco che in seguito a un’aggressione degli Hezbollah il neoeletto esecutivo ha sferrato un’offensiva militare in Libano, trasformando quella che doveva essere un’operazione breve, circoscritta e giustificata, in una guerra lunga e sciagurata. A seguito di questa guerra il governo Olmert ha perso la volontà di progredire verso una pace con i palestinesi, e di fatto ha perso ogni volontà che non fosse quella di restare al potere. I palestinesi, dal canto loro, sono stati trascinati dal governo di Hamas verso posizioni estremistiche e bellicose e si rifiutano di riconoscere il diritto all’esistenza di Israele: posizioni analoghe a quelle che provocarono la loro grande tragedia nel 1948. Ma forse, in questi giorni, si sta delineando un cambiamento su entrambi i fronti. La sensazione e il timore di trovarsi in un vicolo cieco, in un circolo vizioso, è probabilmente comune a israeliani e palestinesi. Se la tregua resisterà, se a essa dovessero seguire la liberazione degli ostaggi e dei prigionieri e la formazione di un governo palestinese pragmatico, non è da escludere che ci troveremo davanti a una nuova iniziativa: non a un altro vertice internazionale o a un altro piano di pace europeo, ma a un negoziato diretto fra le parti. Un negoziato su cosa? Non su un nuovo ritiro unilaterale, una nuova Hudna (tregua) o una Tahadia (periodo di calma) ma su un accordo bilaterale comprensivo e dettagliato per una soluzione del conflitto. Quali saranno i termini di questo accordo? Ecco, la speranza sta proprio nel fatto che israeliani e palestinesi sanno già in cuor loro quali saranno questi termini. Anche gli oppositori alla pace di entrambe le parti lo sanno. Persino chi considera un accordo un tradimento e una sciagura sa in cuor suo che in base a quest’intesa ci saranno due Stati, Israele e Palestina, entro i confini del 1967 con modifiche concordate bilateralmente, sa che Gerusalemme sarà la capitale dei due Stati, sa che non ci sarà alcun ‟diritto al ritorno” per i profughi palestinesi e che non vi sarà più la maggior parte degli insediamenti. Entrambi i popoli sanno tutto questo. E questa consapevolezza provoca loro gioia? Ovviamente no. Il giorno in cui l’accordo verrà implementato israeliani e palestinesi non usciranno a ballare nelle strade. Il compromesso sarà doloroso, fatto a denti stretti. Ma la buona notizia è che entrambi i popoli non hanno dubbi che sia inevitabile. Di quanto tempo, di quanta sofferenza, di quanto sangue avranno ancora bisogno i leader israeliani e palestinesi prima di arrivare alla consapevolezza a cui i loro popoli, a malincuore, sono già arrivati? La tregua. Se resisterà, sarà forse un primo spiraglio di luce.
Traduzione di Alessandra Shomroni

Amos Oz

Amos Oz (1939-2018), scrittore israeliano, tra le voci più importanti della letteratura mondiale, ha scritto romanzi, saggi e libri per bambini e ha insegnato Letteratura all’Università Ben Gurion del Negev. …