Michele Serra: Contrordine, la vera satira è il fuoco amico

12 Dicembre 2006
Recenti baruffe, non sempre congrue, attorno ad alcuni sketch televisivi anti-papisti, hanno rinverdito il dibattito sulla satira, il suo linguaggio e i suoi (indefinibili) limiti. Ora una ambiziosa mostra antologica torinese, che raccoglie materiali satirici italiani dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri, aiuta ad inquadrare con qualche nozione in più (sempre che se ne abbia voglia) una discussione che sarebbe meno peregrina se poggiasse, perlomeno, sulla conoscenza storica di una materia molto complicata e spuria. Intrisa com’è di alto e basso, di sublime e di volgare. Due osservazioni prima di ogni altra. Intanto, e soprattutto: l’evoluzione della moderna satira italiana, dalle sue origini molto contaminate con l’umorismo popolare e con la commedia dell’arte fino alla sua attuale configurazione, tipicamente politico-giornalistica, va di pari passo con l’affermarsi della libertà di stampa. La esprime, la svolge, la documenta, la amplia, su quel confine eternamente mobile che separa il diritto di esprimersi (anche aspramente) dal filo spinato della censura e dell’autocensura. Non per caso sono gli anni della dittatura fascista, nonostante il grande talento dissimulatorio del gruppo del Bertoldo e del Marcaurelio, a segnare l’oscuramento quasi totale degli argomenti politici. E sono gli anni della democrazia e della Repubblica a liberare definitivamente autori e linguaggi, in misura infinitamente maggiore rispetto alla coraggiosa ma goffa e timida attività satirica dell’Italia risorgimentale, liberale e pre-fascista. (Sola eccezione, sulla quale torneremo dopo, il furore anticlericale della satira a cavallo tra Otto e Novecento: con vignette che immortalano vescovi pavidi, flaccidi e sodomiti, da fare decisamente impallidire le attuali parodie sul Papa e i cardinali). Apparentemente banale, questa constatazione sullo strettissimo legame tra satira e democrazia dovrebbe invece orientare meglio di quanto accada il dibattito odierno: la libertà di satira è, sempre e ovunque, una delle più eloquenti cartine di tornasole di una democrazia non formale, dunque conflittuale, dove l’urto tra sensibilità difformi non è l’eccezione tollerata, ma la regola inevitabile. Ove nessuna parola e nessuna immagine vada a toccare nervi scoperti, vuole dire che la comunicazione di massa è conformata e conformista. Del resto, a punire eventuali scivoloni nel campo della diffamazione e della calunnia, dovrebbero bastare e avanzare le vigenti leggi sulla stampa: il resto, tutto il resto, è solo censura, spesso preventiva, di umori sgraditi a gruppi di potere o moralismi o settarismi politici. Seconda osservazione. Il bersaglio della satira, fino agli anni Settanta del secolo scorso, è quasi per statuto rappresentato dagli "altri". I giornali socialisti e anticlericali deridono preti e padroni, i giornalini di trincea della Prima guerra mondiale (la rassegna torinese ne offre un ricco florilegio) sono intrisi di spirito bellico e infamano il nemico crucco, la satira nazionalista colpisce lo straniero vizioso e arrogante. Per imbattersi in una satira "autodiretta" e non solo eterodiretta bisogna attendere la grande crisi ideologica della sinistra, che produce, tra le tante altre cose, il fenomeno del tutto inedito di giornali satirici di sinistra (due dei quali addirittura editi dal Pci) che diventano celebri, e generano grande scandalo, soprattutto a causa del "fuoco amico": e stiamo parlando del Male, di Tango e di Cuore, settimanali molto diversi per spirito e matrice (specie il Male), ma uniti dalla capacità e dalla volontà di infilzare lo sguardo, oltre che nelle malefatte dell’avversario politico, sul disfacimento progressivo della dogmatica marxista e dei suoi apparati istituzionali. Il lento dissolvimento della Chiesa comunista raccontato, quasi giorno per giorno, attraverso l’acido cronismo di vignette e articoli che, raccolti e riletti oggi, darebbero una descrizione piuttosto puntuale, e psicologicamente profonda, di un tratto d’epoca così decisivo. Se tengo molto a sottolineare questo argomento, rischiando il conflitto di interessi (collaborai a ‟Tango” e fui fondatore e direttore di ‟Cuore”) è perché, passando in rassegna molti dei materiali storici della mostra torinese, mi sono reso conto che l’intenzione satirica è quasi fisiologicamente aggressiva: il bersaglio sta di fronte, il bersaglio è il tuo nemico politico o il tuo oppressore sociale. E questa destinazione indiscussa della satira è così scontata da permeare, per esempio, anche la ricca produzione "di trincea" della quale dicevo prima, dalla quale non traspare l’ombra di una riflessione, anche casuale, sullo stato infame nel quale versavano le nostre truppe accatastate lungo i crinali alpini, carne da cannone di quell’innominabile massacro nazionalista che fu la guerra del '15-18. Non basta presumere l’azione di una occhiuta censura militare a spiegare il tono monocorde, bellicista, patriottardo di quei giornaletti. Per quanto presente, nessuna censura può riuscire a conformare un intero linguaggio, sfumature incluse, alla propria causa. E se dunque, in quei giornali disegnati e redatti sotto le cannonate e nel fango, non c’è traccia nemmeno di una malinconia sulle proprie condizioni, di un velato sarcasmo sulle gerarchie e sui poteri, questo significa che la satira, fin lì e per qualche decennio ancora, è un puro strumento di offesa, di galvanizzazione della propria parte politica o combattente, di rafforzamento dei principi e dei sentimenti di chi ne è autore. Di propaganda, insomma. Se questo è vero, il carattere introspettivo della satira politica italiana "di sinistra" degli ultimi venticinque anni (ivi compresi, per esempio, trasmissioni televisive come Avanzi e l’implacabile lavoro dei fratelli Guzzanti) è da considerare una svolta storica. Il satirico inquadra nel proprio mirino, per la prima volta, anche i propri riferimenti culturali, i propri affetti, in fin dei conti se stesso, o perlomeno quel sé collettivo che ogni grande movimento politico-culturale incarna. Il Tango di Sergio Staino, che a metà degli Ottanta finisce sulle prime pagine di tutti i giornali per avere irriso con molte vignette, e con un intero numero speciale, il successore di Berlinguer Alessandro Natta, fu il simbolo di questa svolta della satira: il suo ingresso, direi, nello spirito moderno, che per vie critiche e anche psicanalitiche arriva finalmente a includere anche l’ego, perfino l’ego, tra i materiali della crisi. Curiosamente, proprio nel cuore di quel passaggio culturale così decisivo e stravolgente per la satira italiana, fiorirono polemiche perlomeno malposte sullo spirito "di partito" di quel gruppo di autori. Specialmente Giorgio Forattini, fin lì maestro solista della vignetta quotidiana, si accanì sulla presunta faziosità di testate come Tango, evidentemente non cogliendo l’assoluta innovazione di una satira "a trecentosessanta gradi", come si usa dire con pedanteria trigonometrica. Ci si potrebbe accontentare, come vendetta postuma, di constatare come l’attuale campo editoriale nel quale si esprime Forattini, i giornali berlusconiani, non contengano neppure la vaga ombra di un’autosatira e tantomeno di un’autocritica, pur arrivando trent’anni dopo. E siano, al contrario, esempi (molto tipici anche se molto tardivi) di satira militante e di giornalismo fazioso. Più significativamente, è invece utile ragionare su questo: come insegna il magistrale umorismo ebraico, strettamente connesso alla condizione tragica ed esule che lo ha generato, la satira moderna è (anche) un campo ideale per l’elaborazione del lutto. Servirsi di attrezzi così acuminati solo per confermare le proprie convinzioni, la propria identità, li impoverisce. E d’altra parte, per arrivare a volgere contro se stessi lo stiletto della satira (la formidabile testata del movimento francese madre di molta satira italiana si chiamava Harakiri~) bisogna prima, obbligatoriamente, avere conosciuto davvero, sperimentato a fondo, la crisi di una cultura, di un linguaggio, di un sistema di valori. Diversi anni fa, l’unica volta che fui invitato al meeting di Rimini, e avendo al fianco se non ricordo male Roberto Formigoni allora leader carismatico di Cielle, un ragazzo del pubblico mi domandò perché non esistesse una satira cattolica (non una satira sui cattolici) degna di questo nome. Risposi, per puro istinto, che una satira cattolica avrebbe potuto nascere solo il giorno che un Papa, affacciandosi sulla folla di San Pietro, avesse a dire che Dio purtroppo non esiste (contrordine compagni, come diceva Guareschi~). E al contrario, fintantoché una dogmatica regge, un sistema di idee appare difendibile, al suo interno non c’è particolare urgenza (se non in spiriti particolarmente vivaci, ed eccentrici) di ricorrere all’omeopatia satirica. Infine, verrebbe da dire che se la satira "di sinistra", almeno in Italia, è apparsa negli ultimi decenni così vivace da attirarsi l’antipatica nomea di essere "egemone", questo non dipende dal fatto che la sinistra ha vinto. Ma, al contrario, dal fatto che la sinistra ha perso, è esule ed "ebrea" quanto basta a volere e dovere elaborare il lutto della propria sconfitta. Specularmente, una satira di destra vigorosa e convincente stenta a configurarsi perché la destra ha stravinto, culturalmente e socialmente, o quantomeno ha vinto una destra trionfalista e compiaciuta: e difatti prosegue imperterrita a produrre satire (e giornali) unicamente aggressive nei confronti del "nemico". (Perdendo, tra le tante altre cose, anche la strepitosa occasione di satira offerta dallo strapotere e dalla vanità infinita di Silvio Berlusconi). Lo schemino, lo so, è discutibile e - appunto - molto schematico. Ma provate a riferirlo anche ad altri campi e altri argomenti, e vedrete che ha una sua ragione d’essere. Non esiste una vera satira cattolica (o esiste sporadicamente) e a maggior ragione non esiste satira musulmana (se non in ristretti settori laici di quelle società) non solo e non tanto perché censura e repressione lo impediscono, ma perché l’edificio dogmatico e istituzionale di quei mondi è ancora in piedi, offre riparo sufficiente perché gli uomini vi si sentano rassicurati, la loro identità esaltata. La satira di sinistra, quella che facemmo mentre la Chiesa del movimento socialista e operaio andava sgretolandosi, era dunque, a suo modo, satira anticlericale fatta da chierici, o da spretati. E la verità sottesa, forse, è che l’umorismo (del quale la satira è solo una delle coniugazioni), per non essere facile lepidezza, deve attingere, e molto, anche dalla coscienza del tragico, anzi dall’esperienza del tragico. Una tronfia concezione di se stessi (specie se si ha un ego "a trecentosessanta gradi") può consentire di graffiare gli altri, non di graffiare l’esperienza della vita in sé, che è molto ma molto di più del potere. In questo senso, la visione dei frammenti di satira italiana in mostra a Torino offre un quadro abbastanza consolante dell’evoluzione di un genere. E forse di un Paese che siamo avvezzi a giudicare troppo malamente. La raffigurazione del potere e della società si è fatta via via più libera e anche più matura, e soprattutto meno assolutoria nei confronti di noi stessi. Il vecchio assunto deontologico della satira di sempre, "Castigat ridendo mores", colpisci ridendo i costumi, grazie alle libertà illuministe e borghesi, e se posso azzardare anche grazie al vecchio Freud oggi messo in ripostiglio, finalmente ci vede non solo nelle vesti di autori, o di sdottoranti, ma anche in quelle di bersaglio e di pazienti. è quanto il segretario del Papa, e gli ambienti vaticani più accigliati e anche più disarmati, non sanno e non possono ancora cogliere - se mai lo coglieranno. Non si ride di Dio, si ride, al massimo, dell’ingenuo ricalco che ne fa chi lo nomina così spesso invano. Si ride di noi stessi, insomma, che in ogni vignetta, anche la più scalcinata, siamo in grado di scorgere almeno qualche tratto dell’io che si atteggia, della grande simulazione identitaria che scatena la satira: la grande smascheratrice.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …