Umberto Galimberti: La scienza e il sacro davanti all’eutanasia

18 Dicembre 2006
"Eutanasia" è una parola greca che significa "buona morte", che è poi la morte che compete all’uomo che ha condotto la sua vita senza prevaricazioni e senza eccessi, attenendosi alla giusta misura (kata metron). Oggi la parola significa "morte anticipata" rispetto alle residue risorse dell’organismo, grazie alle possibilità rese disponibili dalla tecnica medica. E siccome la tecnica medica è in continuo avanzamento, sempre più difficile sarà distinguere il dovere di cura dall’accanimento terapeutico. La tecnica infatti ha creato un tempo intermedio tra la vita e la morte, dove una vita organica si protrae o in assenza di una vita cognitiva o in conflitto con la capacità di sopportazione del paziente, che in questo caso chiede di essere aiutato a morire.
Come scrive Umberto Veronesi in Il diritto di morire (Milano, 2005) di eutanasia si può parlare solo in questo secondo caso in cui: ‟Si asseconda la libera volontà espressa da un malato di porre fine alla sua esistenza quando si verificano alcune condizioni che la rendono insopportabile”. Perché tanta incertezza e tante discussioni intorno alla morte assistita, chiesta, invocata, quando il paziente è vivo solo per le leggi biologiche dell’organismo, in quella notte buia determinata dalla irreversibilità della propria condizione che non attende più nessuna alba? Perché è incerto il nostro concetto di "vita", che oscilla paurosamente tra la vita anonima dell’organismo e quella personalizzata dell’individuo che, nelle residue possibilità biologiche del suo corpo, non riconosce e non lascia riconoscere alcuna immagine di sé.
Sulla prima posizione è attestata la Chiesa cattolica e la convinzione di molti credenti che, partendo dal concetto che la vita è un dono di Dio, ne chiedono il rispetto fino all’ultimo respiro. Questo argomento a me pare troppo generico fino ai limiti dell’insignificanza, quando non addirittura decisamente materialistico. Che cos’è, infatti, la vita? La semplice animazione della materia, come pare di poter dire per certe esistenze tenute appunto "in vita" dalla strumentazione tecnologica, o il rispetto dell’individuo, della sua coscienza, della sua deliberazione che proprio il cristianesimo, e non altri, ha eretto a valore indiscusso, trasmettendo questo riconoscimento alla cultura laica che lo ha assunto a principio della sua organizzazione sociale?
Il problema dell’eutanasia non mette in gioco il valore della "vita" che prolifera ovunque, ma il valore dell’"individuo" che, in certe condizioni, può non ritenersi più degno di sé, e può quindi sentirsi in diritto di decidere di porre fine a un’esistenza quando questa ha assunto i tratti di un puro processo biologico che, grazie all’assistenza tecnica, procede nella sua anonima irreversibilità.
A questo punto sorge la domanda: perché la morte fatica così tanto a entrare nel circuito dell’amicizia, dell’amore e acquistare così un volto sereno? Perché bisogna morire solo per cause organiche sotto l’unica giurisdizione della scienza medica? La morte è un evento che riguarda solo il mio organismo oppure riguarda la mia vita, che non è fatta solo di organi fisici, ma soprattutto di vissuti, di amori, di amicizie, di stili, di rispetto di sé? L’organismo, certo, è la condizione della vita, ma la vita non si risolve nel buon funzionamento dei miei organi. E quando gli organi funzionano solo per il supporto tecnico, per morire bisogna attendere solo il loro definitivo collasso? O si può anche chiedere a chi legifera di rivisitare la nozione di "morte" connettendola strettamente alla nozione di "vita" che, come ognuno percepisce, è una nozione decisamente più alta, più ricca, più mia, di quanto non sia la nozione di organismo noto solo alla competenza medica.
Il problema dell’eutanasia è tutto qui. La morte mi riguarda o riguarda solo il mio organismo. Questo pensiero che accompagna la vita di tutti noi, che limita la nostra progettualità, che ci fa compiere certe scelte a una certa età e non a un’età più avanzata, questo pensiero della fine dei nostri giorni che coinvolge aspettative e speranze, progetti e rimpianti, affetti e stili di vita, è una faccenda da affidare alle sorti della materia di cui siamo fatti, o è una faccenda su cui anche noi possiamo intervenire, proprio perché coinvolge quel che siamo e non solo quello di cui siamo fatti?
Quando ci emanciperemo da questo grossolano materialismo che, cadenzando la vita sulle sorti della materia, ci espropria da quel che la vita ha significato per noi, dello stile che le abbiamo dato, dell’impronta che le abbiamo conferito, per consegnarci irrimediabilmente a quell’evento non nostro che è la morte organica?
E perché i difensori della "sacralità della vita" ritengono che bisogna nascere solo come natura prevede e non come i progressi della tecnica medica oggi consentono al di là dei limiti della natura, e poi capovolgono il ragionamento quando si tratta di morire? Il risultato è che chi vuole figli e non li può avere secondo natura deve affogare in un mare di tristezza, e chi vuol morire secondo natura non lo può fare e deve prolungare la propria esistenza in un mare di tortura. Dobbiamo dire che tristezza e tortura sono i veri capisaldi a sostegno della "sacralità della vita" in uno scenario dove il sadismo sembra aver preso il posto dell’amore?
Con queste considerazioni non voglio spezzare lance a favore dell’eutanasia; semplicemente vorrei che la morte perdesse quel suo tratto di estraneità che inevitabilmente possiede quando è affidata alle sorti biologiche dell’organismo e diventasse qualcosa di familiare con la vita, qualcosa che non chiude come un evento estraneo amori e amicizie, ma si fa accompagnare dagli amori e dalle amicizie per cui e con cui si è vissuto. Questa è la morte "umana" che va assolutamente distinta dalla morte "biologica" che al limite non ci riguarda.
Di fronte ai progressi della tecnica medica, che i difensori della "sacralità della vita" rifiutano quando si tratta di nascere e accolgono a mani aperte quando si tratta di morire, non rimuoviamo la zona d’ombra che rintracciamo nello sguardo modesto, perché solo "organico", che la scienza ha della vita e della morte.
La scienza fa benissimo ad attenersi rigorosamente al suo sguardo perché altrimenti salterebbero tutti i suoi metodi, ma malissimo faremmo noi ad abbassare il nostro sguardo sulla vita e sulla morte a livello dello sguardo scientifico. Perderemmo nell’ordine: la nozione di "persona" a favore di quella di "organismo", la nozione di "individuo" a favore di quella di "genere", la nozione di "vita" ridotta a semplice prolungamento del proprio "quantitativo biologico", dimenticando che la vita è essenzialmente biografia, reperimento di un senso, spazio di libertà e di decisione. Misconoscere queste caratteristiche significa non riconoscere l’uomo e la sua differenza essenziale rispetto agli animali, le piante, le cose.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …