Vittorio Zucconi: Usa. Le nuove guerre del presidente

21 Dicembre 2006
Di nuovo, quarant’anni dopo il Vietnam, la frustrazione porta all’escalation. La guerra che in ottobre Bush stava - ci assicurò offeso - ‟assolutamente vincendo” diventa, appena due mesi e una batosta elettorale più tardi, la guerra che ‟non stiamo vincendo, ma non stiamo neanche perdendo”. Qualcosa dunque di surreale, di tragico e di indefinito che vive nel limbo della disperazione impotente di un uomo che annaspa sotto l’ombra del Vietnam. E che, esattamente come i suoi predecessori nei momenti più bui di quell’altra guerra perduta, egli vuole esorcizzare ricorrendo alla trappola ‟escalation”, all’aumento del numero di soldati, per rincorrere la chimera di una vittoria che neppure i suoi generali riescono più a definire che cosa sia.
La conferenza stampa di Natale, che George Bush ha organizzato in fretta, prima di sfuggire all’assedio politico della capitale e rinchiudersi nel ranch texano con la moglie Laura convalescente dall’asportazione di un tumore alla pelle, voleva essere una risposta allo shock dell’intervista concessa martedì al ‟Washington Post”, nella quale, per la prima volta, la giaculatoria dello ‟stiamo vicendo” era divenuta l’ammissione già fatta dal nuovo ministro della difesa Gates davanti al Senato, che gli Usa non stanno vincendo affatto. E dopo quasi quattro anni, tremila caduti, 20 mila feriti e 600 miliardi di dollari fuori bilancio federale bruciati (una cifra pari a 12 ‟manovre” della Finanziaria italiana) al massimo il Team Usa può vantare un pareggio.
Nonostante lo sprezzo e l’arroganza con la quale il presidente ha licenziato il rapporto Baker-Hamilton e la sua spietata analisi della guerra, qualche scheggia di realtà è penetrata nella corazza ideologica di questa Casa Bianca.
Sia l’intervista al ‟Post” che la conferenza stampa di ieri contengono quegli elementi di ammissione, non ancora di realismo, che per tre anni e nove mesi sono completamente mancati nel piccolo mondo di ideologi dei quali Bush si era circondato. ‟Sto studiando una nuova strategia per la vittoria”, ha ripetuto il presidente, nella evidente conferma che, dal marzo del 2003, la strategia seguita non ha funzionato.
Ma per questa ‟nuova strategia per una vittoria”, che deve escludere ogni contatto ufficiale con i veri avversari, l’Iran e la Siria, definita come un Iraq ‟stabile e capace di autogovernarsi”, sono necessarie più truppe, più "boots on the ground", più stivali sul terreno, allo scopo di controllare almeno la capitale Bagdad e creare l’impressione che l’ordine pre bellico sia tornato in Iraq. Ma queste truppe aggiuntive, calcolate in 30 o 50 mila oltre le 150 mila già al fronte, non ci sono, in un esercito americano che l’ex capo di stato maggiore Powell definisce ‟pezzi” e anche i generali in servizio sanno essere ‟troppo stressata”. Occorre dunque, per permettere la mini escalation sognata da Bush e teorizzata dagli ideologi che hanno sbagliato ogni previsione ma oggi giurano di avere finalmente la formula vincente, aumentare gli organici complessivi delle forze armate, reclutare almeno altri 100 mila soldati volontari ai 650 mila che oggi compongono l’esercito e i marines.
È quindi una piccola ‟corsa al riarmo”, un’escalation in chiave minore, quella che il Bush della disperazione oggi chiede al Congresso, secondo il modello della Guerra Fredda che lui ha citato a parallelo della sua ‟Guerra al Terrore”, che è ‟la battaglia ideologica fondamentale che attende questa e le prossime generazioni”. Ma è anche la contraddizione radicale della dottrina militare che la sua amministrazione, e il suo uomo di punta Rumsfeld, avevano concepito per il XXI secolo, la forza ‟leggera, mobile e rapida”, pensata per interventi e vittorie lampo, supportata da altissima tecnologia, e completamente inadatta a una occupazione, come quelle che il Pentagono si è trovato costretto a gestire.
E qui, cade la mosca nella minestra dei progetti per l’ultima carica, la surge, che Bush proporrà a un’America ormai disillusa e scettica, al ritorno dalla sua fuga in Texas. Nella minestra dei sogni di Bush, c’è il Congresso, quella Camera oggi in mani democratiche che dovrà digerire e approvare i costi astronomici anche del ‟mini riarmo” richiesto, del primo aumento di organici militare in 15 anni, dalla grande smobilitazione ordinata da Bush padre e poi proseguita da Clinton, dopo il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991.
Il Pentagono ha già chiesto 100 miliardi di dollari di finanziamenti supplementari fuori bilancio per Iraq e Afghanistan, da sommare agli oltre 550 miliardi di budget ufficiale per la Difesa e la Camera, che non ha il potere di determinare il corso della strategia nazionale, tiene tuttavia le chiavi del forziere federale. Mentre Bush dolorosamente, pubblicamente comincia a scendere a patti con la realtà di una strategia fallita, l’ufficio della contabilità generale dello stato, il Gao, calcola che i 100 miliardi supplementari, dopo i 500 già spesi, porteranno il costo della ‟guerra che non stiamo vincendo” oltre il conto finale dei 15 anni di guerra in Vietnam, 589 miliardi in dollari di oggi. Bush promette una guerra di generazioni. I nuovi leader del Parlamento, i democratici, sono disposti ad accettare al massimo altri sei mesi. Poi, come nel 1973 in Vietnam, la flebo dei dollari buttati nella sabbia della Mesopotamia, sarà staccata.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …