Umberto Galimberti: Il buio della grotta e la luce della nascita

02 Gennaio 2007
La nascita non è mai così sicura come la morte. Si può infatti morire anche senza essere mai nati, si può passare nella vita come giorni senz’alba. Il richiamo alla nascita, che il cristianesimo ripropone ogni anno alla cultura dell’Occidente sul registro della memoria religiosa e della festa, allude a quel compito che Pablo Neruda, senza troppa enfasi, affidò a uno dei suoi versi: ‟è per rinascere che siamo nati”. E così la vita riassume la sua serietà, sottraendosi all’ingenuità dei buoni sentimenti con cui cerchiamo, ogni anno di questi tempi, di recitare la bontà, la serenità e la pace; un po’ goffamente, come capita a chi non è proprio di casa tra queste disposizioni d’animo. Venire alla luce da una grotta, questo evento che il cristianesimo celebra il 25 dicembre, era già noto al mondo orientale e poi greco-romano, che in quella data festeggiava la nascita di Mitra, il dio della luce celeste, garante dei giuramenti, custode della verità, avversario della menzogna. Amico del sole, Mitra è rappresentato dai bassorilievi come colui che inizia il sole, inginocchiato davanti a lui, con un braccio steso sul suo capo, affinché il sole apprenda il suo corso e lo persegua con regolarità e senza sconvolgimenti. Era preoccupazione del mondo antico che fosse assicurata la regolarità del ciclo, che il tempo trascorresse nella regolarità delle sue cadenze, che solo il sole con le sue albe e i suoi tramonti poteva assicurare. Mitra siede al banchetto con il sole, stringendo con lui un patto, e poi sale sul suo cocchio per percorrere insieme gli spazi celesti regolati nelle loro distanze dalla giusta misura. Il culto di Mitra non ebbe templi, ma grotte, in origine naturali, e poi artificialmente riprodotte nel sottosuolo. Dall’oscurità della terra alla luminosità del cielo. Questo è il simbolo di Mitra e il simbolo di Gesù. Ma probabilmente è il simbolo di ogni uomo che per nascere deve "venire alla luce" da quel "fondo oscuro" che è il ventre della madre, l’antro dove siamo concepiti per una nascita, quella nascita che da sola non basta e che invoca una rinascita per trovare il suo senso. La festa di Mitra e di Gesù ribadisce questa vertigine simbolica dove ciascuno deve diventare antro di se stesso, grotta di generazione, notte buia che ha in vista il nuovo giorno, il dies natalis. I simboli martellano la nostra depressione, non ci lasciano nella serena amicizia che spesso intrecciamo con la rinuncia. I simboli ci costringono a vivere, organizzano feste gioiose per riportarci alla vita, quando la nostra partecipazione all’esistenza non ha più i toni forti dell’entusiasmo, o quelli seducenti della voluttà. I simboli, questa macchina collettiva di vita, a cui interessa solo la vita, la vita di tutti, la vita del gruppo, del genere, dell’umanità, i simboli che cosa sanno della mia morte? Quel giorno, per ognuno di noi, potrebbe anche cadere il sole. Un altro antro è già pronto. L’antro di un’altra madre: madre-terra. Mitra, con la sua alleanza con il sole, voleva garantire la regolarità del ciclo, Gesù si congeda dal ciclo e dalla sua regolarità per annunciare un nuovo tempo: nuovi cieli e nuove terre. La storia ha un sussulto e si lacera in prima e dopo Cristo. Nel ciclo ogni epoca non ha una finalità, ma semplicemente una fine. A sancirla è la morte, il giudice implacabile che amministra il ciclo, non nel senso che lo destina a qualcosa, ma nel senso che lo ribadisce come eterno ritorno. Nel ciclo non c’è rimpianto e non c’è attesa. La trama che lo percorre non ha aspettative né pentimenti. La temporalità che esprime è la pura e semplice regolarità del ciclo, dove non c’è futuro che non sia la pura e semplice ripresa del passato che il presente ribadisce. Non c’è nulla da attendere se non ciò che deve ritornare. Questa è la scansione del tempo prima di Cristo. Dopo Cristo si fa strada una parola dirompente che spezza la ciclicità del tempo e la sua regolarità. Il suo suono è éschaton, una parola che nella direzione dello spazio significa "lontano" e nella direzione del tempo significa "ultimo". L’éschaton è dunque un tempo fuori portata, dove solo alla fine può apparire il fine di tutto ciò che è accaduto nel tempo, che a questo punto cessa di essere puro divenire per tradursi in storia. Guardare il tempo come storia è possibile solo se già si è ospitati nella prospettiva escatologica, dove il primato del fine sulla fine irradia sul tempo la figura del senso. Alla fine si adempie ciò che all’inizio era stato annunciato. Inaugurando il punto di vista del fine che si realizza alla fine, il cristianesimo genera una temporalità che è assoluto futuro. E così non solo si separa dalle mitologie primitive che leggono il tempo a partire dal passato, da un paradiso perduto, ma proietta la salvezza in quel possibile futuro a cui si agganciano sia l’utopia sia la rivoluzione, quando la nuova figurazione del tempo, inaugurata dal cristianesimo, si contamina con l’ateismo della speranza. Per lontane che sembrino, utopia e rivoluzione sono eventi cristiani, appartengono al tempo dopo Cristo, scavano il motivo della speranza e della rinascita, sondano possibilità di salvezza, credono che la storia abbia un senso, guardano con sospetto il nietzschiano "tempo senza meta". L’Occidente è stato sedotto da questo nuovo modello di temporalità e, in versione cristiana, utopica o rivoluzionaria, celebra nel natale non il ritmo del ritorno, ma l’atmosfera della rinascita, l’entusiasmo di ciò che ancora è in grado di promettere il futuro: la promessa del tempo. Non guardiamo il natale con occhi innocenti. Non nascondiamoci dietro lo sguardo dei bambini. Nel loro incanto sappiamo che c’è provvisorietà e un po’d’inganno. Una festa può essere così universale solo se raccoglie le metafore di base dell’umano e non solo semplicità e innocenza. Di questi temi ne abbiamo percorsi alcuni. Siamo partiti da una grotta da cui presero le mosse sia Mitra sia Gesù, ma subito dai loro messaggi siamo stati scaraventati da Mitra in cielo a seguire l’andamento del sole, da Gesù a seguire il percorso della storia sulla terra. Il tempo si è spaccato in due, la natura e il suo ciclo hanno ceduto al futuro e alla sua promessa. Tornati tra gli uomini e alle loro quotidiane cadenze, li abbiamo seguiti nei loro passi fuori dalla solitudine, in cerca d’amore. Un amore universale per un giorno di rinascita. Ma torniamo all’inizio: il natale non è nato per la confezione dei buoni sentimenti. Il timbro di questa festa è molto più forte: in gioco c’è l’uomo e la sua storia guardati da un punto di vista molto esigente. è il punto di vista per cui: "Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati".

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …