Vittorio Zucconi: Il crepuscolo del presidente

09 Gennaio 2007
L’ultimo "hurrah" di una presidenza che si credeva imperiale e che ora annaspa per non sprofondare nell’irrilevanza produce un classico rimpasto all’italiana, con turnover di giocatori mossi dal Grande Allenatore nella speranza di non dover cambiare la tattica. Dalla brutale defenestrazione del ministro Rumsfeld poche ore dopo la batosta elettorale dei repubblicani in novembre, al valzer dei generali accusati del disastro iracheno, la battaglia finale per salvare George Bush è cominciata. Ma non si combatte nelle strade di Bagdad, si combatte nei corridoi di Washington. A pochi giorni dall’annuncio della escalation militare in Iraq, quella che pudicamente, per non suonare come il Lyndon Johnson del Vietnam 1968, i bushisti preferiscono chiamare con l’eufemismo surge, incremento, la strategia di una Casa Bianca sempre più isolata è quella di ‟riordinare le sdraio” sul ponte del Titanic, sperando che così la nave resti a galla. Sono stati fatti fuori i due massimi strateghi della guerra, i generali Abizaid, comandante generale del ‟teatro di operazioni” mediorientale e il generale Casey, comandante delle forze sul campo, perché sono sempre i generali che devono perdere le guerre per salvare i governi. È stato eliminato Rumsfeld, il teorico della ‟occupazione leggera” che ha permesso lo scatenamento della guerra civile. È stato già cambiato da non molto il direttore della Cia, il terzo in sei anni. L’ambasciatore in carica a Bagdad, Khalilzad, americano di origine iraniana guardato per questo con diffidenza da molti iracheni, è stato spostato all’Onu, dopo il buco nell’acqua del borioso John Bolton. E ora Dick Cheney, il vice presidente che tira i fili di Bush, ha spedito l’ambasciatore John Negroponte, anche lui già inefficace rappresentante americano a Bagdad e inutile coordinatore della scoordinatissima intelligence nazionale per pochi mesi, a fare da numero due e da tutore al segretario di stato Condolezza Rice, sulla cui pronta e cieca adesione all’ultima carica cominciano a circolare sospetti. I mormorii della corte insinuano che la Rice si sia riavvicinata molto, troppo, al suo antico mentore, quel generale Scowcroft, già consigliere di Bush il Vecchio, e critico feroce della ‟guerra preventiva” per cambiare regime. E che ha contribuito a quel rapporto Baker che Cheney, e quindi Bush, hanno sprezzantemente ignorato e respinto. Tutto questo frenetico spostar di sedie, questo turnover di volti e nomi, ha uno scopo politico preciso e immediato. Non ‟vincere la guerra”, un traguardo che ormai si è ridotto alla speranza di una cronicizzazione del disgraziato paziente iracheno. L’obiettivo è quello di far sentire ancora Bush rilevante, protagonista e non comprimario, di rintuzzare, nella battaglia quotidiana di immagine e di percezione che oggi è la sostanza della politica, l’offensiva dei democratici che controllano il Parlamento e invadono le prime pagine e i teleschermi con promesse di risoluzioni, documenti, iniziative, inchieste, resistenze per ora futili e velleitarie. Ma capaci di sospingere Bush in quel dimenticatoio di marginalizzazione che lo angoscia e dove anche i Presidente più amati scivolano, negli ultimi due anni dei loro mandati. Per la politica, e quindi per i mass media sempre affamati di novità, Bush è la notizia di ieri, e gli occhi sono sempre più puntati sul torneo già cominciato per il 2008 e sui campioni della prossima giostra, Obama, Hillary, McCain, Giuliani. Fra stelle cadenti e nuove stelline, come il generale Petraeus, nuovo comandante delle truppe al fronte considerato un true believer nell’escalation e un fedelissimo della Casa Bianca, l’esercizio di illusionismo organizzato per contrastare i democratici e combattere il disastro propagandistico internazionale della macellazione di Saddam Hussein porta un solo autentico segnale di novità, ed è la nomina di John Negroponte a segretario di Stato ombra. Nel suo "portafoglio" la Casa Bianca ha infatti messo il dossier Medio Oriente, dunque il cuore del dramma, e Negroponte, un diplomatico di antico corso, già parte addirittura della amministrazione Eisenhower (anni '50) avrà un compito preciso, anche se non dichiarato. Quello di fare ciò che non fu fatto nell’allucinazione interventista del 2003 e ora diventa vitale, calmare, avvicinare, mobilitare i vicini sunniti dell’Iraq, i Sauditi, i Giordani, i Siriani, i Turchi, angosciati davanti alla prospettiva di un futuro Iraq consegnato proprio dall’America nelle mani degli Sciiti alla Moqtada al-Sadr. L’aumento di truppe che Bush annuncerà soltanto mercoledì prossimo appunto per mungere a lungo la suspense e quindi restare nell’occhio della cronaca, insieme con il rimpastone tra i palazzi e corridoio della Capitale, sono l’ultimo tentativo di riprendere il controllo del discorso collettivo in patria e di mettere un cerotto sull’Iraq. Se inviare gli effettivi di altre due divisioni nella fornace sia la strada giusta per salvare la presidenza Bush dalla condanna della politica e della storia, lo diranno i prossimi mesi, quando la nazione entrerà ufficialmente, a marzo, nel quinto anno di guerra. Sono in pochi, oltre il circolo sempre più ristretto e disperato dei teologi neo conservatori come Frederick Kagan, a credere che 30 mila soldati e marines americani in più siano la soluzione per controllare Bagdad. Persino il famoso colonnello Ollie North, martire della destra reaganiana negli anni dello scandalo Iran-Contra, ha detto, appunto da soldato, che ‟in questa situazione, aumentare il numero dei nostri militari significa soltanto aumentare il numero dei bersagli”. Ora si tratta di sapere quanto caro costerà, all’America e all’Iraq, il lungo crepuscolo di Bush.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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