Vittorio Zucconi: I tre errori di Al Capone, il barista che divenne padrino

22 Gennaio 2007
La sera era fiacca, in quella bettola di Brooklyn. Anche se l’onda della guerra in Europa - era l’inverno del 1917 - neppure arrivava a lambire quel termitaio di emigranti europei, l’umore era torvo come la notte, gli avventori scarseggiavano e il barista dello Harvard Inn, un ragazzo di diciotto anni, guardava malinconico il bicchiere delle mance vuoto. Forse era la noia, forse la certezza di un’altra sera di magra, ma quando nella taverna entrò una sua vecchia conoscenza, un furfantello chiamato Frankie Galluccio, trascinandosi dietro una ragazza truccatissima e recalcitrante, il barista decise di ravvivare la serata. ‟Frankie boy - gli disse - dammela a me la guagliona con la faccia di puttana, che la faccio divertire io”. Fu il primo, grave errore della sua vita. L’errore fu quello di non sapere che la ragazza bruna e imbronciata era la sorella di Frankie. Galluccio non rispose. Sfoderò dalla tasca con gesto liquido il coltello e sgarrò la guancia sinistra del barista impudente incidendo, secondo il suo futuro faldone negli archivi dell’Fbi, ‟un taglio lungo pollici quattro (dodici centimetri) fra l’orecchio e il mento” che avrebbe prodotto una scar, una cicatrice permanente. Fu in quella sera del 1917, in una bettola di Brooklyn, che Alfonso Capone, figlio del barbiere Gabriele e di Teresina Capone da Castellammare di Stabia, divenne per sempre "Scarface", faccia sfregiata. Nel sontuoso pantheon del crimine americano, tra i Jesse James, Bonnie e Clyde, Joe Gotti, John Dillinger, Lucky Luciano, "Machine Gun" Kelly, "Mamma" Barker, Butch Cassidy, Alfonso o Alphonse "Scarface" Capone occupa da quasi un secolo l’altar maggiore. Nei sessant’anni trascorsi dalla morte, nel gennaio del 1947 nella sua villa in Florida, nessun padrino vero o immaginario ha mai neppure avvicinato la statura di questo ragazzone paffuto e stempiato che la madre Teresina continuò fino all’ultimo giorno della propria vita a definire ‟nu bravo guaglione che ha fatto soltanto del bene a tutti”.
Sul ‟bene”, gli almeno ottanta concorrenti stecchiti direttamente o indirettamente da lui forse avrebbero qualche obiezione, se potessero ancora parlare, ma la vita del figlio del barbiere di Brooklyn arrivato a guadagnare cento milioni di dollari all’anno nel 1927, quando cento dollari al mese erano un succulento salario, è molto più della solita biografia del "mafioso" italo americano. Per dieci anni, coprendo l’esatta parabola del proibizionismo, tra il 1922 e il 1931, quando il giudice James Wilkerson lo condannò per evasione fiscale, Al Capone fu quello che nessun "pezz’e novanta" di New York, nessun capofamiglia de "la Cosa Nostra" riuscì mai a diventare: il re di una città intera, il sovrano assoluto e beneamato di una Chicago dove non si eleggeva un sindaco che lui non volesse; non si apriva un banco di "faro", il gioco d’azzardo più popolare all’epoca, senza il suo consenso; non si beveva una birra nella quale lui non avesse bagnato il becco; non si passava una "marchetta" di ferro fra madame e clienti nei bordelli senza che lui avesse la sua commissione, venti centesimi per ogni dollaro.
A Chicago, il barista sfregiato dello Harvard Inn era arrivato seguendo gli ordini del suo capo-regime a Brooklyn, Frankie Yale (non erano soltanto "wop" italo americani i mammasantissima delle mafie), che lo aveva spedito nel Midwest per sfuggire all’aria divenuta troppo pesante per lui dopo una serie di violenze. Nella "macelleria" d’America, in quella città ammorbata ventiquattro ore al giorno dai miasmi dei mattatoi che sfamavano il West fino al Pacifico, Al divenne il luogotenente del super boss dell’epoca, Johnny Torrio. Non aveva che vent’anni, l’istruzione raggiunta fino alla "sesta", la prima media, dove aveva avuto come compagno di scuola Lucky Luciano, e una moglie sposata da poco, un’irlandese che gli darà l’unico figlio, "Sonny", il nome che Mario Puzo adotterà poi per il primogenito bello e violento del Padrino. ‟Mary - diceva alla moglie guardandolo giocare nella modestissima casetta di Chicago al numero 7422 di Prairie Avenue - ma come abbiamo fatto noi due così brutti a mettere al mondo un figlio così bello”. La risposta della signora non ci è stata tramandata.
Ma imparava in fretta, intelligente e senza scrupoli, in quella università del racket che era la Chicago ruggente. Era un autodidatta avido, e nella prima cella dove fu spedito, nel penitenziario federale di Atlanta, chiese di portare soltanto tre cose: una foto del figlio, un mazzo di carte e l’Enciclopedia Britannica, che leggeva metodicamente, dalla A alla Z. Non disdegnava alcun lavoro, per quanto umile, ed eccelleva nel mestiere dell’"accalappiacani", colui che accalappia polli per le bische e i bordelli, dove lo stesso Alfonso non disdegnava qualche assaggio della mercanzia. La passione per le prostitute fu il secondo errore della sua vita, quello che gli costò la sifilide che lo avrebbe ucciso.
Senza i fondamentalisti puritani, i proibizionisti, le suffragette per la temperanza e i politicanti sempre pronti a montare sul cavallo dell’ultima carica demagogica, è probabile tuttavia che Capone sarebbe rimasto uno dei tanti mungitori di vizi umani. Ma alla mezzanotte e un minuto del 16 gennaio 1920, quando entrò in vigore la legge voluta da un immigrato norvegese, Andrew Volstead - persuaso, diceva, che ‟la moralità si possa imporre con la legge” - e che proibiva la produzione, il commercio e il consumo di ogni bevanda con un tasso alcolico superiore allo 0,5 per cento, il suo rivolo di potere e di danaro divenne il Niagara.
Sul proibizionismo, Al costruì il proprio trono di "King of Chicago". Torrio fu ferito in un attentato e lasciò la città, indicando in Capone il delfino e nessuno riuscì a opporsi e a quella investitura. Non che non ci provassero, ma chi si ostinava a irritarlo conosceva curiosi incidenti sul lavoro, impreviste trombature elettorali o decessi tanto prematuri quanto violenti. Dal suo quartiere generale, in due piani dell’albergo Metropole che aveva fatto ridipingere con vernici dorate e broccati da corte borbonica, mentre la moglie restava sempre con Sonny nella prima casetta di Prairie Avenue, Al governava con poteri assoluti. Correva voce che spaccasse la testa personalmente ai soci infidi, con l’attrezzo del suo sport preferito, la mazza da baseball. Invece delle stock options, per garantirsi la fedeltà del consiglio di amministrazione, stoccate sul cranio.
Ogni birreria, ogni distilleria, ogni grossista di alcolici doveva appartenere a lui attraverso gomitoli inestricabili di prestanome. "Scarface", o "The Big Fellow", l’omone, secondo un altro soprannome, non possedeva nulla. I suoi alibi erano inattaccabili. Quando uno dei suoi rivali cadeva sotto una raffica di mitra Thompson, lui era visibilissimo a teatro, al ristorante, nella prima fila dello stadio del baseball, a balli di beneficenza. Neppure un graffio poté mai essergli contestato direttamente. Chi veniva arrestato, non parlava. Chi finiva sotto processo, era assolto per cavilli, tecnicalità, prescrizioni, false testimonianze o comperando i magistrati e i giurati. Nessuno voleva diventare un’altra carcassa per hamburger, tritata nei mattatoi di Chicago.
E nessun giornale ripeté l’errore commesso quando per la prima volta affiorò il suo nome per un delitto, e fu identificato come ‟Alfredo Capponi”, il 14 febbraio del 1929. I sette cadaveri gonfiati da centocinquanta pallottole in un garage appartenevano tutti, meno un disgraziato che era lì per caso, all’unica gang che ancora osasse competere con Alphonse Capone: quella dell’irlandese "Bugsy" Moran. Non c’era chicagoan, abitante di Chicago, che non avesse capito chi aveva ordinato l’esecuzione, e il massacro (impunito) di San Valentino fu, e rimane, l’Everest delle guerre di mafia. Quel 1929 fu l’apoteosi del "King of Chicago". Tutti lo temevano, molti lo amavano, incoronato definitivamente dai morti di fame in fila davanti alle "cucine di Al", le mense gratuite che lui organizzava per sfamare la gente devastata dal crac di Wall Street. Nella prima forma di welfare state laico, migliaia di famiglie campavano con la minestra della mafia, vestivano con abiti prelevati da negozianti che avevano ricevuto l’ordine di mandare il conto ad Al Capone.
Qualche storico e biografo sospetta che proprio questa generosità, e questa popolarità, siano state il suo terzo e fatale errore. Agli amministratori della cosa pubblica, ai politici ambiziosi, questa stella dava fastidio e cominciava a dar fastidio anche a Washington. Sulla polizia locale, comperata dal cappello alle scarpe, era inutile contare. E anni di indagini sui delitti a Cicero, il sobborgo che era divenuto tutto suo, non avevano prodotto un solo testimone, un solo indizio su di lui, frustrando anche la tenacia dell’agente speciale dell’Fbi Elliot Ness, che sarebbe poi stato idealizzato da Kevin Costner per Hollywood. Neppure il fisco, lo Irs, sarebbe arrivato a nulla contro un uomo che non possedeva nulla e dunque non poteva essere accusato di evasione, se non fosse spuntata una ricevuta, una sola, che portava come beneficiario il nome di Alphonse Capone. Era un reddito, che lui avrebbe dovuto denunciare.
Al rise molto dell’accusa. Ingaggiò i due migliori avvocati di Chicago, con una parcella allora astronomica di 72mila dollari, abbastanza per comperare dieci case in città. Si dichiarò colpevole, convinto dagli avvocati di poter patteggiare col giudice in cambio della ammissione che in effetti Capone doveva al fisco 282mila dollari. Ma era una trappola. Appena ricevuta l’ammissione scritta del difensore, il giudice ritirò l’offerta di patteggiamento. E la sentenza fu il massimo che la legge consentisse: dieci anni in penitenziari federali più un anno in un carcere di bassa sicurezza.
Nel maggio del 1932, la stella di Alphonse Capone, spuntata con il proibizionismo, tramontò con la fine del proibizionismo. In quell’anno cominciò il suo viaggio nel sistema penale, prima ad Atlanta, dove trovò amici e vita comoda, poi nella crudele "Isla de los Alcatraces", l’isola dei gabbiani, Alcatraz, a San Francisco dove il direttore gli proibì di appendere alle pareti della cella i ritratti di famiglia. Prigioniero modello di giorno, nella notte era scosso da incubi. Lo si sentiva urlare, implorare, proteggersi da immaginarie raffiche di mitra. Era la sifilide all’ultimo stadio. Gli furono condonati due anni, per buona condotta, e poté raggiungere la moglie nella villa della Florida che aveva comperato per 52mila dollari, ed era tutto ciò che rimaneva del suo regno.
Morì di arresto cardiaco il 25 gennaio del 1947, ormai pazzo, ma riuscì a sopravvivere di cinque giorni a colui che aveva fatto la sua fortuna di criminale, il proibizionista norvegese Andrew Volstead. Sulla tomba di "Scarface", nel cimitero del Monte Carmelo a Chicago, ci sono soltanto il nome, le date e una preghiera: ‟My Jesus Mercy”, pietà, mio Gesù. Meglio tardi che mai, pare.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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