Addio a Kapuscinski, vagabondo della Storia

24 Gennaio 2007
Prima fotografia: Bagdad 2003, tavolo all'Hotel Palestine, poco dopo l'abbattimento della statua di Saddam Hussein. Gli inviati di tutti i giornali e di tutte le televisioni del mondo raccontano quel che possono della loro giornata di lavoro. Molti esagerano. La maggioranza gonfia il petto. Essere così vicini alla Storia dà la vertigine anche ai più pacati. Poi qualcuno se ne esce con una domanda fuori tema: ‟Cosa avrebbe fatto Ryszard Kapuscinski in un'occasione del genere?”. Il gruppo tace. I tromboni abbassano la testa. E una ragazza polacca che per l'intera serata era stata zitta in apparente adorazione dei colleghi più scafati risponde: ‟Non sarebbe qui in albergo con noi. Lui sarebbe dall'altra parte, in qualche casa di iracheni, in qualche locanda malfamata”. Seconda fotografia: Milano 2000, Libreria Feltrinelli, presentazione del libro Ebano. La sala è zeppa. Kapuscinski è già un autore di bestseller. È il monumento di se stesso. La gente si accalca per vedere come è fatto l'uomo che ha saputo ammaliarli, condurli per mano in realtà lontane. Un ventenne ottiene il privilegio di una domanda: ‟Come si fa a diventare reporter di guerra?”. È quello che tutti vorrebbero sapere, come si fa a diventare Kapuscinski? Così colti? Così sensibili? Così profondi com'è Kapuscinski? Il grande vecchio non sfugge. Raccoglie le forze, si bagna le labbra e spiega qualcosa che qualche anno dopo avrebbe scritto nel suo Autoritratto di un reporter: ‟Il viaggio a scopo di reportage esclude qualsiasi curiosità turistica, esige un duro lavoro e una solida preparazione teorica, per esempio la conoscenza del terreno su cui ci si muove. È un modo di viaggiare senza un momento di relax, in continua concentrazione e raccoglimento. Dobbiamo essere consapevoli che il luogo nel quale siamo giunti ci viene concesso una sola volta nella vita, che probabilmente non ci torneremo mai più e che abbiamo solo un'ora per conoscerlo. In un'ora dobbiamo registrare l'atmosfera e la situazione, vedere ricordare, sentire più cose possibili. Il viaggio a scopo di reportage esige un surplus emotivo e molta passione. Anzi la passione è l'unico motivo valido per compierlo. È per questo che così poche persone praticano reportage su scala mondiale. Di tutti i reporter che viaggiavano per il mondo negli Anni Sessanta ci sono rimasto solo io. Gli altri sono diventati stanziali”. Giornalista, viaggiatore, quasi antropologo, storico di fatto, esperto d'arte, scrittore, autore di successo mondiale. Aveva 74 anni. Era un uomo bassino, tenace, sodo, praticamente pelato. Non Indiana Jones. Eppure aveva ‟coperto” rivoluzioni, guerre, colpi di Stato. Ventisette in 30 anni di attività. Al successo era arrivato per caso, ma, a sentir lui, seguendo il filo che era scritto nel suo destino. Appena nato a Pinsk, un paesino che allora era Polonia e oggi è Bielorussia, il 4 marzo 1932, la famiglia fu costretta a scappare prima da Hitler e poi da Stalin. Si laureò in storia dell'arte a Varsavia e cominciò a girare il mondo per giornali polacchi senza fondi. Fu la sua fortuna. Evitò il circo dei media concentrati sulle notizie minuto per minuto e restò ‟sul posto ‟ a sue spese anche quando i riflettori si erano spenti. Così riuscì a capire, a sentire quello che alla cronaca troppo veloce sfugge. I libri furono il ricettacolo naturale della vita che non riusciva a diventare articolo di giornale. L'umanità, la compassione per le tragedie cui aveva assistito diventavano pagina, letteratura.
‟Più si conosce il mondo, più ci rendiamo conto della sua inconoscibilità e sconfinatezza: non tanto in senso spaziale, ma nel senso di una ricchezza culturale troppo vasta per poter essere conosciuta” diceva Kapuscinski.
Lo chiamavano ‟Il Bruce Chatwin dell'Est ‟, il ‟re o il principe dei reportage”. Di sicuro era il più grande giornalista-scrittore dei nostri tempi. Un vagabondo della Storia che si sviluppa sotto i nostri occhi. I suoi occhi.
L'Africa è stato il primo amore. Eppure Ebano ‟non parla dell'Africa, ma di alcune persone che vi abitano e che vi ho incontrato, dei giorni che abbiamo trascorso insieme. L'Africa è troppo grande per poterla descrivere. È un continente-pianta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtà l'Africa non esiste”. Modesto per metodo, ma per annusare che cos'è oggi il continente nero senza andarci, bisogna leggere il suo Ebano.
I libri più celebri sono ormai dei classici per chi vuole orientarsi nell'età contemporanea. Nel 1983 la rivista ‟Newsweek” definì il suo Negus, splendori e miserie di un autocrate ‟uno dei migliori dieci libri dell'anno”. Era la consacrazione per il giornalista che si ostinava a scrivere in polacco. Nel 1994 con Imperium, un saggio-reportage sul dissolvimento dell'impero sovietico, si impose sul mercato mondiale dei bestseller. Nel 1997 uscì Lapidarium, intarsio di esperienze. Poi Ebano, nel 1998, sui suoi decenni di viaggi in Africa durante i quali si era ammalato di tubercolosi e si era fatto curare da africano in ambulatori locali sempre per capire, per entrare meglio nel luogo di cui voleva parlare. Ormai gli editori lo rincorrevano chiedendogli saggi ispirati ai suoi viaggi, sicuri di vendere. Nel 2001 arriva in Italia Shah-In-shah, nel quale Kapuscinski racconta il suo anno in Iran, proprio quando l'ayatollah Khomeini prende il potere scalzando lo scia Reza Pahlavi. È lì durante i combattimenti nelle strade. Ed è ancora lì quando i riflettori sono spenti a ragionare di ‟come un popolo decide di cambiare il potere”.
Dopo il crollo delle Torri Gemelle di New York andò controcorrente, come sempre: ‟Gli avvenimenti dell'11 settembre ci costringono a vedere il mondo con più serenità e equanimità. Avrebbero potuto essere persino il punto di partenza per un'analisi seria e profonda della situazione del mondo. Purtroppo, l'unica cosa che si è saputo fare è stata una risposta militare ai terroristi”.
Un cronista così mancherà a tutti.

Ryszard Kapuściński

Ryszard Kapuściński è nato a Pinsk, in Polonia orientale, oggi Bielorussia, nel 1932, ed è morto a Varsavia nel 2007. Dopo gli studi a Varsavia ha lavorato fino al 1981 …

La cattura

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di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia