Vittorio Zucconi: Bush. Il tardivo ecologista

24 Gennaio 2007
Ascoltare il Presidente Bush parlare a una nazione che non lo ascolta più, significava assistere a due formidabili drammi racchiusi uno dentro l'altro, al dramma di un uomo sconfitto che sta trascinando nel suo mesto finale una grande democrazia senza più timoniere credibile.
Questo penultimo discorso annuale sullo Stato dell'Unione è stato un discorso sullo Stato del Presidente e le notizie non sono buone. Soltanto Nixon prima di lui era salito sul podio del Senato con un indice di popolarità collassato al 28% e a questi livelli di ostilità si apre sempre il rischio che i due drammi si fondano e il disastro di un presidente divenga il discredito dell'istituzione che lui incarna.
I ricercatori d'opinione e i parlamentari del suo stesso partito repubblicano in pieno ammutinamento da "si salvi chi può", indicano naturalmente nella "Campagna d'Iraq" la causa prima di questa impopolarità e di questa sua irrilevanza. È ovvio che sia così, perché il pubblico americano è sempre generosamente pronto a raccogliersi attorno alla bandiera, ma anche spietato con chi ha barato al gioco del patriottismo.
Ma la guerra in Iraq, che ora il nuovo generale Petraeus dovrebbe fingere di vincere per consentire una dignitosa ritirata e non una rotta all'esercito imperiale, è soltanto una componente del collasso di questa presidenza. È stato l'effetto catastrofico di una cultura di governo che aveva fatto della polarizzazione ideologica e del manicheismo trasportato su scala internazionale, la propria forza e che ora viene ripagata della stessa moneta, incapace di divincolarsi dalle manette che si è messa ai polsi, secondo il classico difetto delle ideologie e dei regimi che risolvono tutti i problemi meno il principale cioè loro stessi.
Il Bush che parlava dal podio del Senato, nel dettato costituzionale che dal 1790 obbliga il capo dello Stato a fare rapporto alla nazione, non era più un presidente di destra o di sinistra, un repubblicano o un democratico. Era semplicemente un uomo non più credibile, qualcuno che ha raggiunto dopo troppe panzane il "tipping point", secondo la definizione di Malcolm Gladwell del "New Yorker", il punto nel quale l'equilibrio statico cambia e le cose precipitano a velocità terminale verso il meglio o il peggio. Niente di quanto lui ha annunciato come le ultime, grandi iniziative della sua presidenza per dare ancora l'impressione di essere all'offensiva, diventerà legge, davanti a un Parlamento dove ogni proposta della Casa Bianca è "Doa", si dice oggi, "dead on arrival", arriva già morta all'ospedale.
Scoprire improvvisamente tutto ciò che fino a ieri veniva deriso o marginalizzato di fronte all'imperativo onnivoro della "Guerra al Terrore", cioè della campagna d'Iraq, per strappare qualche dissidente alla maggioranza democratica, sa di "perestrojka" gorbacioviana, troppo poco e troppo tardi, anche se fosse sincero. La ammissione della minaccia del surriscaldamento della Terra sarebbe stata credibile sei o sette anni or sono, quando invece questa amministrazione stracciò con scherno quel Trattato di Kyoto che aveva almeno accettato il principio della nostra responsabilità nei mutamenti di clima.
La tragedia dei costi astronomici per la salute, che saranno la punta di lancia della campagna dei democratici, della Clinton e di Obama, per la Casa Bianca 2008, viene improvvisamente scoperta da Bush, che propone come soluzione la detraibilità fiscale delle polizze, ignorando che per 46 milioni di americani è il reddito, non il fisco, che non permette di pagarsi una polizza. E al miracolo della mini escalation militare in Iraq, sembra non credere neppure il generale chiamato a compierlo, Petraeus, che ha promesso al Parlamento di "ammettere pubblicamente se la strategia nuova non avrà efficacia". Sarebbe una novità sensazionale, dopo quattro anni di "missione compiuta".
Ma se gli avversari e i critici di Bush, che spuntano come topi dalla nave che affonda, gongolano, il dramma maggiore non è la caduta di una stella politica e la delusione che ha scavato il volto di un uomo che sa di essere stato sconfitto da se stesso e porta i segni della durezza di questi anni.
Il dramma è quello del cuore vuoto, di una Casa Bianca allo sbando ma pur sempre centrale, chiamata, dalla costituzione, a essere il motore che regge l'organismo istituzionale e nazionale. Il lusso di un "presidente inesistente", di un comandante in capo disfunzionale e irrilevante, è qualcosa che l'America, una democrazia presidenziale e non parlamentare, non può permettersi a lungo senza che l'intero organismo ne soffra. La democrazia americana non tollera "presidenticchi" come Bush sta diventando.
Né l'opposizione, anche se maggioranza come oggi è, può divenire la fonte di decisioni politiche alternative, una sorta di "presidenza ombra". Senato e Camera possono opporsi, modificare, fare rumore, chiudere i cordoni della borsa, ma non possono, perché non devono, sostituirsi all'esecutivo con strategie e piani. I democratici non hanno proposte alternative perché non spetta a loro avanzarle, né hanno alcun interesse politico ad "adottare" la guerra in Iraq che è e deve rimanere per loro, la guerra di Bush.
Questo dramma della "Casa Vuota", della voce ridotta a parlare al deserto da un pulpito screditato è ciò che spinse, nel 1974, i "grandi vecchi" del partito repubblicano, guidati da Barry Goldwater, a marciare nello studio Ovale per spiegare a Nixon che era suo dovere andarsene, per salvare l'America. Ma i Goldwater non ci sono più e alle spalle di Bush non c'è il placido, ragionevole e ora rimpianto Gerald Ford. C'è Dick Cheney, l'anima peggiore di questa Casa Bianca che si dice sogni l'attacco all'Iran per distrarre lo sguardo dall'Iraq e chiudere questo dramma in un tragico crepuscolo finale degli dei sconfitti.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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